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A Firenze in scena un audace dittico con il giovane Vittorio Montalti e l'allora giovine Giacomo Puccini

Hey Gio' con Le Villi

servizio di Simone Tomei

Pubblicato il 30 Ottobre 2018

181030_Fi_00_HeyGioLeVilli_VittorioMontalti.jpegFIRENZE - Un audace accostamento quello che si è visto all’inaugurazione della stagione lirica 2018-2019 al Teatro del Maggio Musicale Fiorentino; una ricerca di dialogo tra il presente, un passato prossimo ed  un passato remoto. L’opera del compositore contemporaneo Vittorio Montalti, Hey Gio'..., vuole essere un ricordo ed un omaggio al passato remoto incarnato nella figura di Gioachino Rossini, mentre il passato prossimo vede il componimento del giovane Giacomo Puccini impegnato nel racconto di Le Villi.
Nell’ottica dell’economia di una Fondazione come il Maggio Fiorentino può risultare azzardata la scelta di un dittico sì inusuale, ma la serata risulta piacevolmente gradevole perché in entrambe le opere proposte si colgono aspetti molto interessanti e stimolanti.
Partendo dal componimento attuale del giovane Montalti, Hey Gio’ vivere e sentire del grande Rossini, troviamo una commistione tra strumento e musica riprodotta elettronicamente in cui si innesca un libretto composto all’uopo da Giuliano Compagno; l’ascolto musicale non è di facile immediatezza, ma si coglie nel componimento poetico la grandezza ed l’immensa umanità del Gioachino uomo; uomo che si mescola a note, musica, poesia e sconforto; uomo che si rileva a tratti goffo, ma lucido. Ironico e cinico al punto giusto con il suo impresario Barbajia, uomo che si mescola con altri protagonisti ripercorrendo la sua vita tra Pesaro, Roma e Parigi. In definitiva un testo che fa riflettere e che emoziona senza mai diventare prolisso e ridondante.
Assieme a Tony Laudadio attore che impersona amabilmente il Cigno di Pesaro con dizione nitida e vivido accento, troviamo altre figure altrettanto interessanti che con voce e gesti completano un quadro di intelligente lungimiranza.
Il performer Ludovico Fededegni si intreccia nella vicenda con far sicuro e schietto dimostrando ottime doti attoriali e mimiche.
Tre voci per completare il quadro indicati con i loro registri nel libretto di sala: soprano Ljuba Bergamelli, tenore Gregory Bonfanti, baritono Salvatore Grigoli; le non facili parti cantate si sono rivelate simpatici quadretti che intercalavano la scena con ritmi inusuali e approcci vocali non convenzionali tra cui ha spiccato un difficile terzetto che con parlar cantato ci ha introdotto al finale in cui invitano il compositore a riprendere a scrivere musica.
La direzione del M° Marco Angius con una sezione molto limitata dell’Orchestra del Maggio si è innestata nel racconto narrativo con pennellate sonore come pure la lineare regia di Francesco Saponaro ha trovato un approccio semplice e lineare per definire le movenze e le scene composte per lo più da arredi in stile moderno in cui si sono bene innescati i costumi di Chiara Aversano e le luci di Pasquale Mari; la regia del suono è stata guidata da Tempo Reale / Damiano Meacci.
Qualche passo indietro rispetto a Montalti e qualche passo in avanti rispetto a Rossini ecco che questo viaggio nel tempo ci porta alla fine dell’ottocento quando il giovane Giacomo Puccini muoveva i primi passi nel mondo dell’opera.
È proprio con Le Villi, opera che trova la sua datazione primaria nell’anno 1884 al Teatro Dal Verme di Milano che Puccini si immerge nel mondo del Melodramma con una composizione che ci fa scorgere il grande talento del Doge lucchese già adocchiato da Giulio Ricordi per farlo diventare il cavallo di punta della sua scuderia. Proprio in relazione all’editore milanese mi preme riportare un ampio stralcio tratto dalla Gazzetta musicale di Milano che riporta recensioni e commenti dopo la rappresentazione al Teatro alla Scala la sera di sabato 24 Gennaio 1885.
«… Una piccola opera, con tre soli personaggi, epperò con un relativo limitato numero di pezzi, e che tuttavia interessa da cima a fondo il difficile e schizzinoso pubblico della Scala, deve dunque aver in sé grandissimi elementi di vitalità; e questi, infatti, li riscontriamo nella bella, giusta misura dei singoli pezzi, nella elevatezza, che chiameremo sempre simpatica e non pesante, dei concetti, nel ben nutrito istrumentale e nella varietà dei ritmi. Tutte bellissime cose coteste e che per certo altri giovani maestri posseggono al paro del Puccini, ma il Puccini, a parer nostro, ha qualche cosa di più, e questo qualche cosa è forse la più preziosa delle doti, quella alla ricerca della quale s’affannano e s’arrabbattono tanti genî incompresi, la cui impotenza si maschera sotto lo specioso nome dell’avvenire!... Questa preziosa qualità, del nostro Puccini, è di avere nella propria testa (ou dans son ventre, come dicono i francesi) delle idee: e queste si hanno o non si hanno, come direbbe giustamente il buon Colombi, né si acquistano studiando e ristudiando punti, contrappunti, armonie, disarmonie, e sudando lungamente su quei geroglifici pieni di scienza e di veleno che sono le partiture Wagneriane. Si possono bensì queste idee guastare, atrofizzare, ed in questo lavorio che mette a completa rovina la bella, semplice, casta musa italiana, hanno parte principalissima molti critici o sedicenti critici musicali italiani, i quali perché di musica ne sanno come noi di chinese, nulla di meglio trovano per fabbricarsi una usurpata rinomanza di scienza e di intelligenza, se non di dire corna della musica italiana. Noi davvero non comprendiamo questa mania demolitrice, la quale ha trovato la sua più perfetta estrinsecazione in un articolo del Corriere della sera del 24 corrente, che riportiamo acciocché i nostri lettori vedano a qual punto può essere ingannata la buona fede di un critico che non sappiamo se sia più o meno musicista.

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"La musica descrittiva e sentimentale ha sopraffatto la musica dell’espressione. Il wagnerismo, inteso come espressione individuale di una nuova forma di melodramma, ha dato un nuovo ideale agli scrittori di musica che preparano il teatro dell’avvenire. Il poeta — perché qui si tratta di un vero poeta, benché i versi del libretto non valgano molto più di quelli dei soliti mestieranti — ha tentato in questo poema quella fusione delle forme sinfoniche colle drammatiche, che è vagheggiata da coloro che vanno preparando il teatro dell’avvenire. Il vecchio convenzionalismo del melodramma italiano rovina da tutte le parti; oramai, persino nei teatri popolari. Dove la forma d’arte rinnegata dai pubblici più intelligenti e più progressivi trova sempre un ultimo applauso, è penetrato il bisogno di un’arte più ampia, più perfetta, più libera, più alta. L’incremento ogni dì più largo e più rapido dei concerti sinfonici non può non avere una grandissima influenza sulle sorti del teatro musicale. Mano mano che il gusto del pubblico si alzerà all’ammirazione più pura dell’arte musicale, la sinfonia, il melodramma tenderà a trasformarsi, ad uscire da ogni barocca convenzionalità per espandersi liberamente in una forma nuova, dove le esigenze dello spettacolo non s’impongano, come fanno ora, ai diritti dell’arte. Il libretto sta per cambiarsi in poema, come il melodramma sta per cambiarsi in una grande sinfonia rappresentata sulla scena. Ecco perché ci pare che il poemetto scenico del Fontana debba essere considerato con una speciale attenzione e giudicato con criteri diversi da quelli adoperati fin qui per giudicare del valore di un libretto.
A noi sarebbe assai facile il confutare con fatti molto positivi queste strambe teorie, ma neppur di ciò abbiamo bisogno, poiché, nello stesso Corriere della sera del 29 corrente, un artista, un letterato, quale il Verga, si è incaricato, a proposito di drammatica, di fare la più concludente delle confutazioni al bizzarro articolo che sopra abbiamo riportato. Ecco le belle, le sante parole dettate dal Verga:
In Italia, rendiamoci giustizia, se non si fa gran cosa, non si tiene neppure in troppo gran conto il poco che si fa. Uno che abbia viscere fraterne per queste povere nostre lettere, deve tener dietro a quello che pensano di noi fuori di casa nostra, ed anche a quello che fanno quegli altri, per non correre ogni momento ad abbracciare lo spagnuolo, come faceva Rossini. In compenso siamo facili e indulgenti ammiratori dei forestieri, quanto siamo arcigni e severi coi nostri di casa. Forse questo è un sentimento d’ospitalità larga e signorile rimastaci dal tempo in cui l’Italia era solo il paese degli aranci e dei viaggi di nozze, e non vuol dire però che la sia una virtù da locandieri. La modestia non è un difetto, specie per gli altri; anzi può confortare come indizio di un senso più alto dell’arte nostra, e come una maggiore promessa per l’avvenire. Ma, perdio! non ci mettiamo a gridare sui tetti che siamo un mucchio di cretini, quando gli altri, fuori, non riescono a prenderci in parola.
Queste parole possiamo davvero applicarle in Italia a tutto quanto si fa in arte, in scienza, in letteratura, in politica; e poi, vedendo che alla fin fine a qualche cosa riescono anche gli Italiani, piuttosto che giudicarci meno asini di quello che noi stessi ci battezziamo, rimaniamo sbalorditi dandone il merito a quella misteriosa proteggitrice nostra, che si chiama: Stella d’Italia!... Parrà ai nostri lettori che, a proposito delle Villi, noi siamo esciti di carreggiata; ebbene no: tutto quanto abbiamo detto, vogliamo sia ponderatamente letto e studiato dal nostro bravissimo Puccini: ripetiamo che immensa è la fiducia che riponiamo nel di lui talento, e desideriamo poter dire fra qualche anno, non è solo talento, ma genio. Si rammenti il Puccini che è italiano, se lo rammenti e non si vergogni d’esserlo, italiano, e lo provi lasciando correre libera da ogni pastoia la sua ferace fantasia; ne avrà gloria, e sarà gloria italiana!... – G. Ricordi.»

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Tornando ai nostri giorni ed alla sera ottobrina nel capoluogo toscano ecco che l’opera pucciniana prende vita per mano del regista e scenografo Francesco Saponaro con i costumi di Chiara Aversano, coreografie di Susanna Sastro e luci di Pasquale Mari; sostanzialmente la stessa squadra dell’opera precedente, ma qui non mi è apparsa altrettanto brillante e coinvolgente come lo era stata in precedenza.
Tutto pare scorrere in ambienti molto stilizzati e poco definiti con punte kitsch che poco avevano a che vedere con la drammaturgia; le strutture mobili che entrano ed escono dalla scena danno l’idea di posticcio e di poco curato con un finale in cui la protagonista ormai morta torna sulla scena sopra un catafalco tanto da ricordare l’Amneris verdiana in preghiera sopra la “fatal pietra”; anche le coreografie sono risultate piuttosto anonime e la movimentazione scenica dei personaggi e della regia piuttosto scialba e poco coinvolgente.
Confermo una partecipazione sentita del Narratore Tony Laudadio nel raccontare i due passi orchestrali di inizio secondo atto. Elia Fabbian è stato un Guglielmo Wulf perentorio e tonante nonostante uno stato di salute non proprio eccellente. Passionale e sensuale l’Anna di Maria Teresa Leva che vanta una luminosa seconda ottava ricca di contrasti e di sfumature. Grande istrione Leonardo Caimi nel ruolo di Roberto che si è ben districato negli impervi passaggi nel finale del secondo atto.
Come al solito ben presente e preparato il coro diretto dal M° Lorenzo Fratini.
Le coreografie, seppur banali e poco significative, sono state ben eseguite dalla Compagnia Nuovo BallettO di ToscanA.
La direzione del M° Marco Angius ha saputo offrire pochi sentimenti e poche emozioni perché ha privilegiato più la ritmica e la precisione musicale che non i colori e le sfumature dirigendo l’orchestra con precisione, ma con un gesto troppo geometrico in cui il respiro e la passione hanno piuttosto latitato.
Poco pubblico per la prima parte della serata - dovuto forse anche a straordinari problemi di traffico sui Viali della città - mentre qualche presenza maggiore si è affacciata per la ripresa, ma generalmente in Teatro si è avvertita una sensazione di modesta accoglienza per questo dittico inusuale. (La recensione si riferisce alla recita del 25 ottobre 2018).

Crediti fotografici: Maurizio Brenzoni per il Maggio Musicale Fiorentino - Teatro dell'Opera di Firenze
Nella miniatura in alto: il giovane compositore Vittorio Montalti
Al centro: scena da Hey Gio’ vivere e sentire del grande Rossini
Sotto: scena da Le Villi






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