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L'opera contemporanea di Aribert Reimann per la regia di Calixto Bieito accolta in riva all'Arno

Un Re Lear esagerato

servizio di Simone Tomei

Pubblicato il 07 Maggio 2019

190507_Fi_00_Lear_FabioLuisi_phMicheleMonastaFIRENZE - William Shakespeare incontra il Teatro d’opera con la sua opera King Lear attraverso le “note” di Aribert Reimann che con il “suo” Lear avrebbe voluto fornire un supporto musicale alla vicenda tra l’altro ben costruita, da un punto di vista librettistico, per mano di Claus H. Henneberg; queste parole introduttive con virgolette e tempo condizionale passato sono già un viatico per qualificare questo componimento che giudico da un punto di vista musicale uno strazio per l’orecchio ed una pena per il cuore: tengo a precisare che il giudizio che esprimo traduce le sensazioni e lo stato d’animo che hanno albergato in me durante l’ascolto e nei giorni successivi. Mi è risultato molto difficile sapermi distaccare da tanto malessere provato in quelle due ore e mezzo di musica; uno spartito connotato dalla violenza di un espressionismo esagerato in cui il costrutto perennemente atonale non ha mai sviluppato intorno ai personaggi una linea tematica che fosse in grado di rappresentarli e di connotarli all’interno di un discorso musicale, ancorché dissonante e privo di “armonia”. Tutta la tela musicale tenta solo di dare alcune pennellate in superficie e guardare la trama solo con occhio esteriore e privo di coinvolgimento emotivo e sentimentale e la musica è sinonimo di “rumore” - almeno io lo interpreto così - assordante che nulla aggiunge, anzi molto toglie, alle undici scene in cui è condensato il cupo lavoro del Bardo; a dire il vero forse un pregio questa “musica” lo ha… quello di riuscire a valorizzare la “parola” e si badi bene solo quella, in quanto i cluster (che raggiungono fino a 48 suoni complessivamente) non la soverchiano quasi mai, ma attenzione, nemmeno la assecondano con un accompagnamento degno di tal nome, o cercano di trovare con essa un compromesso accettabile; il risultato è quello di un compassato rispetto dove orchestra e testo letterario non comunicano mai tra loro convogliando il risultato complessivo verso un caos senza fine che si trasforma in fastidio per l’orecchio ed in stilettate per il cuore.
Questa attenzione verso la parola trova motivo di esistere grazie alla nutrita esperienza di Reimann che in gioventù ha maturato grande esperienza nel repertorio melodrammatico, esperienza che gli ha permesso di conoscere e collaborare con il baritono Dietrich Fischer-Dieskau che sin dal 1968, aveva suggerito al compositore tedesco il soggetto in questione e del quale ne era stato successivamente primordiale interprete nel 1978 a Monaco di Baviera, con la direzione di Gerd Albrecht e la regia di Jean-Pierre Ponnelle.
Già nel 2001 quando l’opera fu presentata al pubblico italiano per la prima volta, sebbene in lingua inglese, vi furono pareri contrastanti sull’”utilità” e la necessità di tal musica per dire qualcosa in più rispetto a quando non avesse già detto lo stesso Shakespeare nel suo dramma, ma tant’è che quest’anno nell’ambito dell’ottantaduesimo Festival del Maggio Musicale Fiorentino Lear è stato proprio il titolo di apertura che ha riscosso, nonostante il mio pensiero, un buon successo di pubblico e di critica; un’edizione quella del festival fiorentino che porta come titolo “Potere e virtù" come a voler sondare attraverso diversi linguaggi i rapporti complessi tra queste due grandezze che l'oscuro personaggio shakespeariano ben incarna.
Lasciando da parte il mio parere completamente negativo sulla parte musicale, mi pongo il dubbio che il successo possa essere ascritto alla partitura e tendo più ad elogiare la parte visuale che giunge a Firenze da un allestimento dell’Opéra National de Paris firmato dal controverso regista Calixto Bieito e ripreso per l’occasione da Yves Lenoir con scene di Rebecca Ringst, i costumi di Ingo Krügler e luci di Frank Evin su cui hanno dominato alcune proiezioni di Sarah Derendlinger.
L’unico quadro scenico ha la forma di scatola delineata da assi di legno che lasciano intravedere qualcosa oltre grazie a delle fessure verticali che nel dipanarsi dello spettacolo si muovono e danno vita alla foresta in cui ogni valore umano sembra essere annientato dagli eventi; questa visione drammaturgica trova un suo perché anche nella lettura del saggista e critico letterario Mario Praz che così parlava in merito al dramma shakesperiano: “In un mondo rappresentato a tinte fosche, in preda all’ambizione, all’egoismo, al tradimento, Lear ci appare dapprima uomo tra gli uomini, anch’egli egoista, autoritario e prepotente: egli si crede il centro dell’universo e progetta la divisione del regno come un esperimento per provare che, anche spogliato del potere e degli attributi regali, egli rimane quale è stato sempre. Ma appena gli cade dalle spalle il mantello regale, gli cadono pure le bende dagli occhi e per la prima volta in vita sua si rende conto della realtà. La sua concezione soggettiva della vita gli crolla intorno e la catastrofe interiore trova rispondenza nella tempesta. Per Lear la sventura è via a un’umanità più profonda: tradito da coloro che credeva più vicini al suo cuore, ridotto all’indigenza, Lear scorge infine che pietosa creatura sia l’uomo; e via via che il dolore porta luce nel suo animo e confusione nella sua mente, egli acquista la maestà che non possedeva quand’era circondato di tutte le prerogative reali. Tra la furia scatenata degli elementi, il desolato vecchio anziché diminuire di statura giganteggia come un titano martoriato”.

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Bieito ha portato all’esasperazione tutto questo con tinte spesso crude e aspre mettendo in luce il declino senza fine del protagonista che prende coscienza del suo essere vecchio e malvisto da tutti e ormai allo stremo delle proprie forze. In questa regia i personaggi sono scolpiti più che dalla musica dal rigore e dalla crudezza del dramma che non è mai fine a se stessa, ma figlia di una vivida consapevolezza che diventa arte scultorea nel creare una figura simile alla “pietà” in cui i ruoli padre-figlia si invertono passando dal filiale al paterno.
Il versante musicale ha messo in luce delle grandissime eccellenze a partire dall’Orchestra della fondazione fiorentina guidata dal M° Fabio Luisi che ha tradotto perfettamente tutte le asprezze e le dissonanze di una partitura controversa e faticosa all’ascolto. Un impegno intenso che ha saputo ben domare la massa orchestrale rafforzata nella sezione delle percussioni gestendo con sapienza e tenacia quel “dialogo inesistente” tra buca e palcoscenico. Ottimo anche il coro preparato e diretto come sempre dal M° Lorenzo Fratini.
Venendo alle voci emerge senza dubbio il carisma e la prepotenza scenica del protagonista che vede in Bo Skovhus, veterano del ruolo, colui che  sposa appieno con l’interpretazione e con il corpo ogni afflato richiesto dalla partitura incarnando, nel monologo conclusivo, tutta l’essenza del dramma psicologico in una pagina di grande emozione scenica.
Sul versante femminile emergono subito le tre sorelle impegnate in strazi vocali ai limite dell’umano e dimostrando in questo stridore musicale una grande professionalità; il declamato impervio di Goneril dove Ángeles Blancas Gulín tende le corde ai limiti della sofferenza, si contrappone per Regan interpretata da Erika Sunnegårdh un canto più moderato ma non indenne da difficoltà rappresentate da un rigo musicale in cui compaiono fioriture e agilità non proprio semplici.
Cordelia per voce di Agneta Eichenholz si cimenta in un ruolo più puramente lirico e affronta l’impresa elegantemenete, anche se di eleganza musicale non possiamo parlare, con un suono ben cesellato e nitido.
Impegno non facile anche per Andreas Conrad nel ruolo di Edmund che regge bene la parte aspra e ruvida.
Andrew Watts quale Edgar passa con maestria dal ruolo di tenore a quello di controtenore conquistando la palma di grande interprete da annoverare tra i migliori del cast.

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Ottimo anche il resto del cast che vede impegnati un accorato Levent Bakirci quale commovente Gloster, Derek Welton nei panni di Albany,  mentre Michael Colvin dà corpo ad un convincente Corwall; puntuali e precisi Frode Olsen (Re di Francia) e Kor-Jan Dusseljee (Kent), Luca Tamani (Un servo) e Davide Siega (Un cavaliere).
Una menzione particolare per Il Matto che è un eccellente Ernst Alisch;  ruolo recitante che impone la sua presenza come alter ego del protagonista preciso e ficcante nella sua ottima dizione.
Ma nonostante il mio pensiero, tutto è bene quel che finisce bene ed il pubblico accoglie con grande plauso tutto il cast, il Direttore d’Orchestra  ed anche il compositore presente alla rappresentazione.
(La recensione si riferisce alla recita del 5 maggio 2019).

Crediti fotografici: Michele Monasta per il Teatro dell’Opera di Firenze – Maggio Musicale Fiorentino
Nella miniatura in alto: il direttore Fabio Luisi






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