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Torna in Arena l'ultima opera di Giacomo Puccini e fa trionfare il binomio Zeffirelli-Oren |
Una bella Turandot |
servizio di Athos Tromboni |
Pubblicato il 01 Luglio 2018 |
VERONA - Anfiteatro con il tutto esaurito anche per la Turandot di Giacomo Puccini, terzo titolo del Festival estivo 2018. L’allestimento era quello già conosciuto ed eseguito nel 2014, regia e scene di Franco Zeffirelli, costumi di Emi Wada. E sul podio il maestro Daniel Oren. Come dire, il massimo della tradizione areniana per uno spettacolo fedele proprio alla tradizione esecutiva. Il “binomio” Zeffirelli-Oren ha dato prova ancora una volta di godere d’una sinergia che va oltre il raddoppio delle singole potenzialità e bravure. L’uno esalta l’altro, e viceversa. E dunque l’ascoltatore non può chiedere di più, essendo egli il destinatario di tutto ciò che, sinergicamente, il “binomio” riesce a trarre da una partitura e da un libretto, col rispetto del testo da parte del regista. Zeffirelli non solo fa apparire la Cina come immagine classica e non olografica, fa anche recitare i cantanti trasportandoli dentro un'ambientazione consona che valorizza al meglio i personaggi e i ruoli degli interpreti, e così la messinscena diventa coinvolgente perché l’immedesimazione non concede al pubblico e ai protagonisti le episodiche distrazioni che possono esserci quando la tensione si stempra: la recita in questa Turandot regge la tensione sempre, e favorisce una sorta di partecipazione collettiva, consapevole e cosciente. Ne guadagna così l’empatia complessiva, perché come il riso e il pianto, anche l’empatia è contagiosa.
Ma il regista non calibra soltanto i personaggi singoli sulle caratteristiche attoriali dei cantanti, affida alle masse un ruolo drammaturgico, perché il coro non deve solo cantare, deve anche recitare in sincrono con le comparse, i mimi, il balletto e i solisti, la situazione d'ambiente. Tutto coeso dentro la drammaturgia, tutto proiettato verso il dramma. La gestualità delle masse sembra coreografia, più che recitazione, e la scena prende una vivacità febbrile, ma non smodata, né confusa, o peggio inciuciona: no, quella gestualità è perfettamente funzionale all’emotività di chi esegue e – per empatia – anche all’emotività di chi ascolta. Questi sono i contenuti impliciti di una regia che funziona alla grande. E poi ci sono i contenuti espliciti della drammaturgia che nella regia di Zeffirelli vengono trasformati in pulsioni interiori di chi esegue e di chi assite; e facciamo un esempio soltanto fra i tanti che si potrebbero citare: nel secondo atto, prima che la principessa Turandot ponga i tre enigmi a Calaf, il regista, con il contributo delle coreografie di Maria Grazia Garofoli e del balletto, fa aleggiare sul palcoscenico l’attesa della morte: detta così sembra una semplice nota di cronaca, mentre invece ad analizzarla bene è una vera e propria atmosfera che si delinea: la morte come posta in gioco fra la principessa di gelo e l’amore ardente del principe ignoto, e – per empatia - fra me e l’altro da me che vorrei fosse con me, per me, in me. La morte come catarsi. La morte come rituale. E l'attesa della morte come fascino che ti avvince e distrugge. Finita l'attesa, sconfitta la morte aleggiante in quella sfida, splende la luce della contentezza, del sollievo, dell’epilogo felice, trionfa la vita.
Daniel Oren, dal podio, contribuisce in eccelsa misura al risultato: la sua concertazione è attenta e l’Orchestra della Fondazione Arena di Verona è bravissima a cogliere le esortazioni che vengono dal podio: piano, pianissimo, crescendo con sentimento, diminuendo con struggimento, rallentando, rallentando ancora di più, ancora più pianissimo fino ai limiti dell’udibile, esplosione dell’accordo, dito sulle labbra per stimolare il temperamento di una dinamica mezzo-forte, scuotimento di testa per dire no no no, ancora più adagio, saltello per chiudere in levare, carezza con la mano per chiudere in battere diminuendo… insomma tutto l’armamentario gestuale di un direttore che sa quel che vuole e lo ottiene. E la sua concertazione diventa avvincente, non per l’istrionica gestualità, ma per l’effetto sul suono e sul canto che quella gestualità riesce ad ottenere. In due parole: ottimo amalgama. Ammirevole come sempre il sostegno dato ai cantanti e se due attacchi del coro sono stati sprecisi, è peccato veniale.
Il cast ha risposto con dovizia: felicissimo il debutto di Anna Pirozzi nel ruolo di Turandot, un personaggio che lei aveva già fatto proprio in concerto, ma non in recita. La sua ‘principessa di gelo’ è apparsa ieratica, imponente, aristocratica. E il suo canto si è caratterizzato per l’ottima intonazione anche sulle vette della zona acuta; ha cantato melodizzando, intonata e precisa, anche là dove altre si rifugiano nel declamato altisonante. Delicato e potente il canto di Gregory Kunde in Calaf: il tenore riesce sempre a sorprendere, che faccia Otello o Calf o altro personaggio spinto o drammatico, perché con naturalezza, senza forzature né sforzo, porge un canto che mostra quanto sia matura la sua voce per ruoli che forse egli stesso – da belcantista eccelso – non avrebbe mai ipotizzato solo pochi anni addietro. Ha dovuto bissare a furor di popolo l’aria Nessun dorma invitato anche dal furbo Oren che all’applauso scosciante dell'Arena ha aggiunto il proprio applauso rivolto verso il pubblico, come a soffiare sul fuoco (dell’entusiasmo): Kunde non ha potuto esimersi, ha cantato, addirittura meglio nel bis, guadagnando la standing ovation che spetta ai miti del Do di petto. Eccellente anche la Liù di Vittoria Yeo che nella seconda aria, quella del suicidio (Tu che di gel sei cinta) ma anche nell’arioso che la precede (Principessa… l’amore) ha mostrato una sintonia con Oren e l’intera orchestra che è risultata a nostro avviso la parte più significativa ed apprezzabile di tutta la sua partecipazione. A lei è stato attribuito l’applauso più lungo e caloroso al termine della recita.
Bravo Giorgio Giuseppini nel ruolo del vecchio Timur: siamo in presenza di un basso di sicuro affidamento, sia come cantante che come attore. Buone le prestazioni delle tre maschere Federico Longhi (Ping), Francesco Pittari (Pong) e Marcello Nardis (Pang); elogio anche per i comprimari, Antonello Ceron (Imperatore Altoum), Gianluca Breda (il Madarino) e Ugo Tarquini (il Principe di Persia). Bravissimo il coro diretto da Vito Lombardi. Molto belle le luci curate da Paolo Mazzon. Meritata l’accoglienza trionfale manifestata dal pubblico. Repliche il 5, 13, 18, 26 luglio. (Recita di sabato 30 giugno 2018).
Crediti fotografici: Foto Ennevi per la Fondazione Arena di Verona Nella miniatura in alto: il direttore Daniel Oren Sotto: il soprano Anna Pirozzi, debuttante nel ruolo di Turandot Al centro in sequenza: Gregory Kunde (Calaf); ancora Kunde con Giorgio Giuseppini (Timur) e Vittoria Yeo (Liù) In fondo: il finale della Turandot curata da Franco Zeffirelli (regia e scene), Emi Wada (costumi) e Paolo Mazzon (luci)
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Il Turco conquista Rovigo
intervento di Athos Tromboni FREE
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Nabucco fra Oren e Del Monaco
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Nel Campielo xe bel quel che piase
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Il 35° nel segno della solidarietā
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redatto da Athos Tromboni FREE
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servizio di Athos Tromboni FREE
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