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La referenziata regėa di Kupfer incontra la solida direzione di Daniele Gatti

Meistersinger alla Scala, Wagner all'italiana

servizio di Francesco Lora

Pubblicato il 24 Marzo 2017

170324_Mi_00_DieMeistersingerVonNurnberg_HarryKupferMILANO – Il Premio Abbiati per il miglior spettacolo è appena stato attribuito al Rosenkavalier rappresentato lo scorso anno al Teatro alla Scala: direzione di Zubin Mehta, regìa di Harry Kupfer, scene di Hans Schavernoch, costumi di Yan Tax e luci di Jürgen Hoffmann. In questo stesso momento Kupfer e i medesimi collaboratori sono di nuovo nel massimo teatro milanese, per la ripresa di uno spettacolo-capolavoro anch’esso legato a precedenti commissioni del sovrintendente Alexander Pereira: l’allestimento scenico per l’opera straussiana proveniva infatti dal Festival di Salisburgo, dov’era stato varato nel 2014, mentre dall’Opernhaus di Zurigo proviene quello dei Meistersinger von Nürnberg, varato nel 2012 e ora alla Scala per sette recite dal 16 marzo al 5 aprile. Tale lettura teatrale della commedia di Richard Wagner era già referenziata, e rimarrà lungamente alla memoria, per qualità tanto facili da spiegare quanto complesse da attuare.
In essa si riconosce infatti l’appassionata conoscenza del testo anziché la sua noncurante costrizione a un estraneo Konzept. Indi si vede il lavoro con gli attori: gesto e parola inseguono senso, studio e risalto, fino a restituire psicologie profonde, differenti e moderate. Ove presa, la libertà è significativa: l’azione si svolge tutta intorno alla chiesa di S. Caterina, storico luogo di riunione dei maestri cantori in Norimberga, o meglio durante la messa in sicurezza delle sue rovine, dopo i bombardamenti della seconda guerra mondiale. Sullo sfondo si vede, di atto in atto, la ricostruzione della città attuale.

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Ma la trasposizione temporale ha luogo cogliendo la palla al balzo dall’atto III del libretto stesso, là ove si allude al disastroso assedio che, nel 1553, una coalizione di prìncipi tedeschi pose alla città libera: manifestazione e aggiornamento del lontano evento rinascimentale parlano così con tremenda immediatezza al pubblico contemporaneo.
Nella ripresa milanese, la bontà del polo teatrale è persin sovrastata dall’eccellenza di quello musicale, ove la concertazione di Daniele Gatti tiene a sua volta a bada estro e mezzi dei singoli cantanti. Formidabili sono la prestazione tecnica e il riscontro poetico dell’Orchestra e del Coro della Scala nelle mani del direttore. Interprete wagneriano di riferimento nel contesto internazionale, avvezzo alle diverse risorse d’istituzioni e compagini austro-tedesche, Gatti procede qui come nel recente Tristan und Isolde al Teatro dell’Opera di Roma: nobilita il pregio peculiarmente italiano dell’orchestra, lavora dunque in vista dell’omogeneità timbrica tra le sezioni, privilegia il canto degli archi sull’interpunzione dei fiati, sa comunque far esplodere di echeggi dorati le file degli ottoni, suscita atmosfere narrative con tanta solidità d’impasti quanta sollecitudine di sfumature e pragmatica astensione da compiacimenti calligrafici.
Del Coro, basti dire che estende a Wagner quanto sempre fa in Verdi: sulle specializzate scene di Berlino e Monaco, Vienna e Bayreuth non se ne trova uno più traboccante di suono e tinte. La compagnia di canto è invece sbilanciata a pro delle voci gravi virili, qui radunate in una formazione prossima all’idealità. Ineccepibile nella vocalità è infatti Jacquelyn Wagner come Eva, benché difettino in lei freschezza adolescenziale e palpitante simpatia.

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E piuttosto timida è Anna Lapkovskaja come Magdalene, sì da non lasciare specifico ricordo di sé tra i comprimari. Abbandonate le recite per indisposizione, dopo una “prima” problematica, Michael Schade cede poi la parte di Walther von Stolzing a Erin Caves, che l’ha di recente sostenuta alla Komische Oper di Berlino: a questi va il merito d’aver ovviato all’emergenza, benché i mezzi vocali siano comuni per natura ed esigui per tempra, sì da limitare inoltre la messa a fuoco del personaggio.
Michael Volle tiene invece il raro vanto di arrivare con canto intatto alla fine della recita, avendo sostenuto la parte di Hans Sachs che è sterminata nella psicologia e nel cronometro, nonché di saper ritrarre dalla vita quotidiana capillari sfumature di burbera cordialità. Al suo fianco contrasta gran bene Markus Werba come Sixtus Beckmesser: artista ancor giovane e avvenente, con sottigliezza tecnica da liederista, sa illustrare la pedanteria senza ricorrere al grottesco, e insieme dar luogo a una fisionomia inedita e tuttavia incontestabile. Nei panni di Veit Pogner, Albert Dohmen rinnova tale presenza scenica da imporsi anche nei momenti d’immobilità; e l’autorevolezza si moltiplica, beninteso, al suo pacato, paterno, misurato, tenebroso aprir bocca. Ironicamente sacordotale il Guardiano notturno di Wilhelm Schwinghammer, spensierato ma senza petulanza il David di Peter Sonn, gemma d’eleganza tra gli altri maestri cantori il Fritz Kothner di Detlef Roth.

Crediti fotografici: Brescia Amisano per il Teatro alla Scala
Nella miniatura in alto: il regista Harry Kupfer
Sotto: la prima scena dell'opera all'apertura del sipario
Al centro da sinistra: Jacquelyn Wagner (Eva) e Albert Dohmen (Veit Pogner); ancora Dohmen e Michael Volle (Hans Sachs, seduto al centro)
In fondo: scena della riunione dei Maestri Cantori nel 1° atto






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