Pubblicato il 10 Agosto 2025
Il Teatro ''A. Belli'' di Spoleto ha aperto la settantanovesima stagione lirica con una prima assoluta
Il matto Nanof e l'altro intervento di Athos Tromboni

20250809_Spoleto_00_NanofLAltro_RobertoCalaiSPOLETO - Morbus sine materia. È una forma letterale medica per definire quelle patologie che non manifestano degenerazioni organiche di una parte del corpo colpito dalla malattia. La pazzia, per esempio, è un morbo senza materia: non ci sono riversamenti di sangue, gonfiori, purulenze, catarri, eccetera. Il corpo rimane intonso; la mente no, va per conto proprio "deviando" il comportamento da quello stato che viene definito "normale" verso momenti e anche movimenti a volte inconsueti; e può indurre il corpo a gesti e posture che modellano il "disagio" al punto che esso si ripercuote visivamente negli atteggiamenti.
Proprio di questo è stata specchio l'opera in un atto Nanof, l'altro con la quale il Teatro Lirico Sperimentale "A. Belli" ha inaugurato, venerdì 8 agosto la propria settantanovesima stagione lirica nel Teatro Caio Melisso di Piazza del Duomo: musica di Antonio Agostini, libretto di Chiara Serani con la collaborazione di Davide Toschi.
Si è trattato di una prima esecuzione assoluta e l'opera è stata presentata alla stampa, nel pomeriggio dell' 8 agosto, dallo stesso  Agostini, con interventi della Serani, della direttrice d'orchestra Mimma Campanale e del regista e ideatore della messa in scena, Alessio Pizzech: moderatore il direttore artistico del teatro, il musicologo Enrico Girardi.
Il saluto del teatro è stato portato dal presidente dell'istituzione, Roberto Calai: «... la missione del Teatro Lirico Sperimentale di Spoleto - ha detto Calai - prende le mosse dalla volontà di creare uno spazio adatto al perfezionamento e all'avviamento professionale dei giovani cantanti, realizzando un progetto artistico ampio che abbraccia nel contempo la commissione di opere nuove, la riscoperta di titoli di rara rappresentazione, l'approfondimento del repertorio liederistico e la messa in scena di capolavori del teatro musicale di tutti i tempi.»

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Erano presenti e sono intervenuti per un saluto anche il sindaco di Volterra, Giacomo Santi e il vicesindaco di Spoleto, Danilo Chiodetti.
Perché Volterra? Semplice: la storia narrata nell'opera è quella di "Oreste" Fernando Nannetti (Roma, 1927 - Volterra, 1994) internato nel manicomio di quella città toscana, sezione giudiziaria "Ferri", dal 1958 al 1979 prima che il manicomio venisse chiuso per l'entrata in vigore della Legge Basaglia.
Nannetti, che si autodefiniva "Oreste" come nome aggiunto a quello anagrafico, oppure Nanof come pseudonimo o anche N.O.F. 4 (che sta per Nannetti Oreste Fernando, matricola d'internamento 4) probabilmente non avrebbe lasciato traccia di sé, come per altri internati a Volterra, se non avesse inciso con la fibbia di una cintura un muro alto tre metri e lungo centottanta metri con propri graffiti, formule, spezzoni di poesie, disegni e geroglifici immaginari. Quel muro è andato in gran parte distrutto, ma una decina di metri sono stati salvati dal Comune di Volterra e fanno parte del Museo Lombroso voluto dall'amministrazione locale per ricordare non solo e non tanto (ha spiegato il sindaco Giacomo Santi) che la famigerata "sezione giudiziaria Ferri" era il temuto luogo di terapia (tortura) fisica degli internati in quel braccio d'ospedale psichiatrico (elettroshock estremi, camicie di forza, lobotomie, trattamenti sperimentali a fini d'indagine, altri trattamenti coercitivi), quanto per il fatto che il manicomio di Volterra è stato principalmente un ospedale psichiatrico dove molti malati di mente venivano stimolati al lavoro, avviati e poi assistiti nella realizzazione di una oggettistica - spesso di fantasia - creata con le mani... insomma, una fattispecie di anticamera per il "mestiere".

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Dunque Nanof, l'altro è la testimonianza che il teatro musicale contemporaneo offre a una vita vissuta e a un fenomeno d'arte (l'incisione del muro con una fibbia) che la storia potrebbe definire e codificare come "Art Brut". L'Art Brut di Nanof, appunto, che è stata lo sfogo di Nannetti e contemporaneamente la sua ragione di sopravvivenza (resilienza, si direbbe oggi). Allo pseudonimo del recluso, facendo il titolo dell'opera, il compositore Agostini ha aggiunta la parola l'altro: per significare - è stato spiegato - che l'altro sarebbe il mondo oltre il muro, dove Nanof avrebbe voluto andare anche se solamente di tanto in tanto; oppure anche gli altri (medici, pazienti, reclusi della sezione "Ferri") che stanno oltre egli stesso, oltre la sua fibbia, il muro da incidere.
«Lo psichiatra veneziano Franco Basaglia - spiega la direttrice d'orchestra Mimma Campanale - nel tentativo di eliminare il "soffocante odore di morte" che egli percepisce la prima volta che varca la soglia di un manicomio, rovescia un paradigma: il malato mentale che fa paura diventa il malato mentale che ha paura. Questa inversione di prospettiva segna il suo approccio innovativo che si concretizza nella sperimentazione della "comunità terapeutica" dove la cura nasce attraverso il riconoscimento dell'altro e lo stare con l'altro.» La Campanale spiega con molta cognizione di causa, essendo ella - oltre che direttrice d'orchestra e musicista - anche laureata in psicologia all'Università di Bari.
E il regista Alessio Pizzech aggiunge: «... la follia, cioè la capacità di immaginare mondi possibili, la tensione alla creazione di linguaggi nuovi, come insegna Nanof, l'agire con libertà di pensiero, sono oggi visti come aspetti da tacere, silenziare. L'altro inteso come valore, portatore di alterità e quindi arricchimento del singolo e della comunità è vissuto spesso come pericolo anziché ricchezza. Nanof è l'emblema di una forza creatrice che costruisce la propria libertà all'interno del perimetro di un muro; e crea un'opera d'arte capace di parlare a noi. Il lavoro musicato da Antonio Agostini ci invita, invece, a ribaltare il punto di vista: la storia di Nanof è una celebrazione, un canto che va oltre il dolore e porta al riconoscimento quasi sacrale della Diversità come Valore artistico.»
La storia di Nannetti è stata ricostruita anche attraverso i suoi scritti (pensieri e parole sulle cartoline che gli venivano date e che lui indirizzava a parenti e amici immaginari; poi le cartoline non erano ovviamente spedite, ma buttate da qualche parte) grazie a un infermiere del manicomio, Aldo Trafeli, l'unico con in quale Nannetti parlasse confidandosi anche; Aldo Trafeli ha raccolto le cartoline, ha annotato in un proprio diario le conversazioni e scritto una memoria su Nanof divenuta un libro dal titolo "N.O.F. 4 - il libro della vita".
Né sono trascurabili - per la vera identità della persona - le fotografie di Pier Nello Manoni che hanno consentito l'indagine sulle parole tracciate sul muro, sui disegni, sui geroglifici immaginari; e - infine - molto significativa anche l'analisi "sul campo" dell'artista volterrano Mino Trafeli.

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Il compositore Antonio Agostini ha impiegato più di dieci anni a completare l'opera Nanof, l'altro essendo questo il suo primo lavoro per il teatro musicale; ma la scrittura si è fatta via via più coinvolgente e convincente a partire dal 2019. Fonti di ispirazione (e confronto, anche) furono gli insegnamenti del suo maestro Giacomo Manzoni (tre accordi per Nanof presi dal Doctor Faustus di Manzoni), ma anche le opere Il prigioniero di Luigi Dallapiccola e il Wozzek di Alban Berg.
«L'idea di scrivere un'opera ispirata all'arte e alla vicenda umana di Nanof - spiega Gianluigi Mattietti nel documentato programma di sala del teatro spoletino - si è consolidata in Agostini attraverso una serie di otto studi, per vari organici, anche con elettronica, composti tra il 2021 e il 2023: il "motore" di tutto è stato lì, in questi studi preparatori, ma già con l'idea di arrivare ad un'opera. Pur essendo lavori indipendenti, ciascuno studio prende il titolo da estratti del graffito di Nannetti: il primo per soprano ed elettronica si intitola Dopo la sua seconda apparizione prende sembianze umane; il secondo per chitarra elettrica ed elettronica si intitola Le ombre opprimono e si trasmettono vive sotto il Cosmo; il terzo per sax baritono e percussioni è Fusione 1950 - Stella Uranio; il quarto per sax tenore ed elettronica ...Voci e parole sono delle linee...; il quinto per pianoforte ed elettronica, Stazione magnetica - Prospettiva approssimativa; il sesto per contrabbasso, Solforico - Argo - Cristallo; il settimo per fisarmonica ed ensemble, Le nuvole si trasformano e diventano materia...; l'ottavo per orchestra (con la dedica a Giacomo Manzoni), Ferro - Fusione.»
Agostini, già sul "pezzo" con la collaborazione di Davide Toschi, ha poi chiamato la scrittrice e letterata pisana Chiara Serani affidandole la stesura del libretto. Lei ha sviluppato un ottimo libretto su due piani simmetrici: le sue personali parole di librettista e gli scritti tratti dai graffiti e dalle cartoline di Nannetti. E il compositore ha assemblato i suoi otto precedenti studi completandoli musicalmente con interludi strumentali come fossero in metafora (ma non in assonanza) la celeberrima "promenade" di Musorgskij dei Quadri di un'esposizione.
La musica si è fatta suono con un linguaggio attinente l'avanguardia novecentesca e oltre (dove oltre sta per musica elettronica e rumori di radioline a transistor accese e posate sulle pelli tese degli strumenti a percussione, sfregamento e sbattimento di sassi fatti giungere da Volterra, altri rumori della quotidianità opportunamente integrati allo strumentale della piccola orchestra di diciotto elementi e al canto declamato delle voci in scena e del coro) per una performance della durata di 65 minuti. Le linee del suono sono vere e proprie superfici sonore, dove le asperità la fanno da padrone, una sorta di descrittivismo che - però - non imita la natura cercando di descriverla (come furono tanti lavori di compositori soprattutto francesi a cavallo fra Ottocento e Novecento): quindi non onomatopee dei suoni della natura, ma onomatopee delle angosce, delle paure, degli stati d'animo del protagonista; in sostanza, questi suoni sono di fatto morbus sine materia.
Attentissima la direzione di Mimma Campanale sul podio, che ha saputo condurre la concertazione e l'amalgama con le voci dei solisti e del coro in maniera molto ispirata e coinvolgente. L'opera di Agostini è veramente pregevole, convincente: nuova, per molti aspetti. Al risultato hanno contribuito i giovani cantanti lirici del Teatro di Spoleto, usciti dai concorsi internazionali che si svolgono sulle tavole del Teatro Caio Melisso o del Teatro Nuovo anno dopo anno.
Marco Guarini era Nanof; Chiara Latini era Lei 1 (cioè la mamma di Nannetti); Emma Alessi Innocenti era Lei 2 (cioè l'amata immaginaria e immaginifica della donna desiderata da Nannetti); Giuseppe Zema era l'antipatico (nel libretto) Primario del manicomio; Paolo Mascari era l' Infermiere 1 (cioè il quasi perverso operatore parasanitario del manicomio) Dario Sogos era l' Infermiere 2 (cioè, in pratica, l'infermiere dal volto umano Aldo Trafeli); in scena anche i figuranti Giuseppe Lorenzo Badagliacca (il fotografo, alias Pier Nello Manoni), Alessandro Caporali, Raffaele De Vincenzi, Sandro Fiorelli, Tommaso Iachettini e Valentino Pagliei (gli internati).
Molto pertinenti le scene di Andrea Stanisci, i costumi di Clelia De Angelis e le luci di Eva Bruno. Coinvolgente la regia di Alessio Pizzech che non ha lesinato le crudezze della visione dal vivo di un elettroshock o di altre  angherie subite da Nanof. Ma soprattutto efficace il suo impianto narrativo, focalizzato sulla figura di Nannetti (né poteva essere diversamente, non prestandosi il suono e il canto ad altre interpretazioni che non fosse la realtà vissuta e simulata) con qualche invenzione anche visionaria e/o mistica, come nel finale dell'opera quando le due donne, la Lei 1 e la Lei 2 lavano il corpo seminudo di Nanof steso a terra: l'immagine è mutuata da un "Compianto sul Cristo morto" di tanti scultori d'ogni epoca, immagine anche accompagnata dall'intelligente libretto della Serani che cita alcune frasi del Pianto della Madonna di Jacopone da Todi («... figlio chi t'ha ferito ... figlio amoroso giglio ...» il tutto sotto una scritta declaratoria: «La libertà è terapeutica», a monito dei qualunquismi prevaricatori d'oggigiorno.
L'Orchestra Ensemble Calamani e il Coro (preparato da Mauro Presazzi) erano quelli del Teatro Lirico Sperimentale "A. Belli" di Spoleto.

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La prima rappresentazione ufficiale è stata preceduta da un'anteprima, giovedì 7 agosto, dove in scena erano Davide Paroni, Lorena Cesaretti, Francesca Lione, Sathya Gangale, Nicola Di Filippo e Stepan Polishchuk, altrettanto bravi quanto i loro colleghi della prima assoluta.
I due cast si sono alternati nelle repliche di sabato 9 e domenica 10 agosto.
(la recensione si riferisce alla recita di venerdì 8 agosto 2025)

Crediti fotografici: Niccolò Perini per il Teatro Lirico Sperimentale "A. Belli" di Spoleto
Nella miniatura in alto: il presidente del Teatro "A. Belli", Roberto Calai
Sotto, in sequenza: Marco Guarini (Nanof); Dario Sogos (Infermiere 2), Giuseppe Zema (Primario), Paolo Mascari (Infermiere 1), e Marco Guarini; Nanof con Emma Alessi Innocenti (Lei 2) e Chiara Latini (Lei 1)
Al centro, in sequenza: la scena dell'elettroshock con Dario Sogos, Giuseppe Zema, Paolo Mascari e Marco Guarini; la posa per la foto a Nanof con il Primario, l' Infermiere 1 e l' Infermiere 2
Sotto, in sequenza: altre immagini di scena negli scatti di Niccolò Perini
In fondo: i saluti del secondo cast protagonista dell'anteprima; sono riconoscibili, da sinistra a destra, Nicola Di Filippo (Infermiere 1), Lorena Cesaretti (Lei 1), Francesca Lione (Lei 2), Davide Peroni (Nanof), Sathya Gangale (Primario) e Stepan Polishchuk (Infermiere 2)





Pubblicato il 27 Luglio 2025
Salta il terzo atto per la pioggia ma il Festival Puccini rimedia facendolo cantare nel foyer
Turandot il ritorno servizio di Simone Tomei

20250727_TorreDelLago_00_Turandot_AnnaPirozzi_phMarilenaImbresciaTORRE DEL LAGO PUCCINI (LU) - Era il 14 luglio del 2017 quando, da inviato del mio giornale, varcavo per l'ultima volta le soglie del Gran Teatro all'aperto di Torre del Lago. Ricordo bene quello spettacolo e, ancor più, la recensione che ne seguì: scritta con il cuore in mano e senza filtri, non si limitava a valutare la resa artistica, ma sollevava - con lucidità e senso di responsabilità - forti perplessità su una gestione del Festival che, a mio avviso, tradiva il prestigio e la vocazione profonda di una tradizione pucciniana che merita ben altro. Quella presa di posizione, troppo diretta forse per certi palati, mi costò l'esclusione dalla lista dei recensori accreditati (ospite non gradito, era la motivazione) . Non fu una scelta contro la mia Testata, ma contro la mia persona: una forma di ostracismo discreto, eppure eloquente, che puniva chi aveva osato dire ad alta voce ciò che molti pensavano solo a mezza voce. Chi lo desidera può ancora trovare quel pezzo negli archivi: resta lì, come testimonianza di un giornalismo che non ha mai avuto paura di chiamare le cose con il loro nome.
Non ne feci una battaglia personale. Il tempo è passato, e con lui anche il peso di quell'episodio. Ma mentirei se dicessi che non ci fu ferita. Quando ami un luogo, una tradizione, un teatro - e chi mi legge sa quanto profondamente ami tutto questo - sentirti allontanato per aver espresso un pensiero magari opinabile ma sincero, lascia un segno che non si cancella facilmente.
Per questo, il mio ritorno al Gran Teatro all'aperto di Torre del Lago ha un sapore particolare. Un ritorno inatteso, sì, ma carico di memoria, di emozione, e anche di quella cauta speranza che si prova quando si rientra in un luogo che un tempo ha fatto male. E con altrettanta onestà posso dire che, rispetto ad allora, qualcosa è cambiato. In meglio, secondo il mio giudizio. Ho trovato un clima professionale, cordiale, finalmente sereno. Un ufficio stampa efficiente, presente, umano, guidato con intelligenza e misura dalla dott.ssa Floriana Tessitore. E soprattutto, un'accoglienza all'altezza del luogo e della sua storia, che non si limita a tollerare chi scrive, ma lo ascolta, lo rispetta, lo considera parte di una conversazione culturale più ampia.
Non sono cambiato io: è cambiato ciò che ho trovato. E non posso che esserne felice.
Perché a volte, nella musica come nella vita, anche le note più dissonanti possono trovare una loro armonia.
E ironia della sorte, proprio quell'ultima sera del 2017 fu segnata dalla mia recensione alla prima regia lirica di Alfonso Signorini, che debuttava con Turandot. Otto anni dopo, a segnare il mio ritorno su queste rive, il sipario si riapre sullo stesso allestimento, nella medesima veste scenica e con la stessa firma registica. È come se il tempo si fosse fermato, o meglio: come se Torre del Lago mi avesse trattenuto nel punto esatto in cui l'avevo lasciata, in attesa di una conferma o di una smentita.
La Turandot, l'opera incompiuta di Puccini, nella versione completata da Franco Alfano, si ripropone dunque con la direzione musicale affidata a Renato Palumbo, le scene di Carla Tolomeo e i costumi di Fausto Puglisi.

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Prima di addentrarmi nelle pieghe della messa in scena è doveroso spendere qualche parola sul contesto che ha accolto questo mio ritorno. Il pubblico che quest'anno approda a Torre del Lago non potrà non notare i significativi cambiamenti e l'accoglienza rinnovata, frutto di una visione lungimirante. Negli ultimi anni l'area del Gran Teatro all'aperto e l'intero contesto urbano di Torre del Lago hanno beneficiato di un imponente intervento di riqualificazione promosso dal sindaco di Viareggio, Giorgio Del Ghingaro. Il progetto ha interessato il decoro, la viabilità, l'illuminazione e gli spazi pubblici, con una particolare attenzione al Belvedere sul Lago di Massaciuccoli, oggi trasformato in uno spazio pedonale di grande suggestione, a ridosso del Teatro e del Parco della Musica e della Scultura. Interventi che restituiscono dignità paesaggistica e funzionalità a un luogo profondamente legato alla figura di Giacomo Puccini, valorizzandone la vocazione culturale e turistica, e restituendolo pienamente alla comunità e al pubblico del Festival.

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La serata, tuttavia, ha riservato anche un momento di inaspettata e commovente resilienza, un vero inno allo spirito del teatro che, a dispetto di ogni avversità, trova sempre la sua strada. Durante l'intervallo tra il secondo e il terzo atto, la pioggia si è abbattuta con violenza sul pubblico e sul palcoscenico del Gran Teatro all'aperto. Dopo una lunga attesa, e quando ormai sembrava inevitabile la sospensione definitiva, molti spettatori, anche in considerazione del tono turistico e vacanziero che spesso caratterizza il pubblico estivo, iniziavano a manifestare una palpabile delusione per le avverse condizioni meteo.
È in questo frangente che la Fondazione Festival Pucciniano, grazie allo spirito di collaborazione di tutto il cast e alla disponibilità della maestra collaboratrice Michi Tagasaki, ha preso una decisione lampo: l'intero terzo atto è stato eseguito, seppur in forma ridotta, nel foyer del teatro, con il solo accompagnamento pianistico. Una scelta che, pur dettata dalla necessità, è apparsa subito come un gesto concreto per soddisfare il pubblico, trasformando una serata compromessa in un momento di completezza inaspettata.
È lì che Gregory Kunde ha cantato il celebre "Nessun dorma", che Carolina López Moreno ha interpretato "Tu che di gel sei cinta", e che Anna Pirozzi ha condiviso con Kunde il duetto finale.
Non mi sono avvicinato a questa Turandot con aspettative particolarmente alte, bensì con la consapevolezza di assistere a un allestimento già visto. Le impressioni di allora - una messa in scena corretta ma priva di guizzi, senza infamia e senza lode - hanno trovato in questa riproposizione una conferma ancora più netta.
Nulla è cambiato, e quel che è da mettere in evidenza, è che nulla è cresciuto. Nessuna invenzione memorabile, nessuna intuizione registica capace di imprimere profondità o nuova lettura al capolavoro pucciniano. Mancano del tutto quei segni distintivi che ci si aspetterebbe da una grande produzione, sostituiti da scelte non solo discutibili, ma in alcuni casi fuorvianti.
Un esempio su tutti: l'idea che Liù suggerisca a Calaf le risposte agli enigmi. Una forzatura evidente, che contraddice il libretto e ne svuota il senso più autentico, snaturando sia il valore simbolico del sacrificio di Liù che la dimensione intellettuale della sfida imposta a Calaf. Forse si è creduto di introdurre un elemento di originalità, ma il risultato è stato esattamente l'opposto: un tradimento del testo, che riduce l'opera a una narrazione confusa e meno potente.
A distanza di anni l'impressione si è ormai consolidata, aggravata dalla mancata visione del finale - che forse avrebbe potuto offrire un sussulto, un'intuizione, un segno. Ma anche quella possibilità, purtroppo, ci è stata negata dal maltempo.
L'idea registica di Signorini può essere racchiusa, a mio avviso, in pochi aggettivi: ovvia, scontata, trasparente. La staticità è forse l?elemento più pregnante che attraversa tutta l'opera, un'immobilità che stride con la tensione drammatica della partitura pucciniana. Il palcoscenico è diviso da un grande separé, a creare la cesura tra il mondo popolare e quello regale, una soluzione che richiama vagamente la Turandot  zeffirelliana dell'Arena di Verona, ma che qui appare pallida e priva di respiro, incapace di generare quel senso di grandezza o di oppressione che il dramma richiede.
L'impianto scenico è sì visionario nelle sue intenzioni, ma si rivela manierato nell'esecuzione: una Cina immaginaria, sontuosa e carica di colori, tra ori e laccature rosse, motivi orientaleggianti e sculture imperiali. I costumi accentuano ulteriormente questa estetica da fiaba glamour. Ma il tutto, per quanto scenograficamente curato, non riesce mai a evocare un'autentica tensione teatrale o a dare profondità ai personaggi. Le sfere bianche che salgono sul palco durante l'invocazione alla luna, lungi dall'essere un tocco di genio, sembrano tentativi goffi di infondere una parvenza di originalità, finendo per appesantire la narrazione con inutili orpelli. I movimenti scenici sono ridotti al minimo, quasi coreografati con rigidità da passerella, privi di spontaneità e di vera interazione drammatica. La regia non si fa mai dramma, e quel gelo che dovrebbe avvolgere la figura di Turandot rimane solo una suggestione didascalica, mai incarnata davvero, lasciando lo spettatore in un limbo di indifferenza.
La Turandot disegnata da Signorini appare come una regina-fantasma, sospesa tra crudeltà e seduzione, gelo e passione, ma questa visione, pur interessante sulla carta, non riesce a tradursi in un impianto scenico che sappia davvero mescolare esotismo e glamour in una Cina fastosa e simbolica, dominata da colori accesi, riflessi d'oro e rosso lacca, motivi orientaleggianti, pannelli mobili, sculture imperiali e scene notturne. Le intenzioni sono chiare, ma la realizzazione manca di quella scintilla che eleva la visione a vera arte, lasciando un senso di occasione mancata.

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Veniamo ora al cast, sul quale mi esprimerò in relazione a quanto visto sul palcoscenico del Gran Teatro all'aperto, lasciando all'avventura del foyer il solo aspetto della cronaca di un evento eccezionale.
Sul palco del Gran Teatro, la principessa Turandot ha trovato in Anna Pirozzi un'interprete di grande caratura, capace di affrontare la complessità del ruolo con notevole maestria vocale. La sua voce, oltre a essere salda e sicura in tutta l'estensione richiesta dal ruolo, si dispiega con una ricchezza timbrica che le permette di navigare agilmente tra i registri più impervi. Le sue intenzioni interpretative sono sempre acute e precise, supportate da un legato curatissimo che cesella il fraseggio con eleganza e profondità. La voce corre, si libra nell'aria con una proiezione notevole, riempiendo lo spazio scenico e sciorinando con veemenza i terribili (da un punto di vista anche musicale) enigmi. La sua interpretazione non si limita alla mera esibizione virtuosistica ma si addentra nelle sfumature psicologiche del personaggio, rendendo la sua Turandot una figura complessa e sfaccettata, capace di trasmettere sia l'algida crudeltà iniziale che la progressiva vulnerabilità.
Al suo fianco, l'imperatore Altoum è stato reso con autorevolezza da Massimiliano Pisapia, mentre il Timur di Michele Pertusi ha offerto una prova di profonda sensibilità e spessore: la sua voce è salda, le intenzioni sempre ben dosate e il fraseggio accurato.
Il principe ignoto, Calaf, ha visto in Gregory Kunde una voce che ormai non riesce a nascondere qualche usura, pur mantenendo buona proiezione e sicuri accenti. Gli acuti, a volte allungati a dismisura, mettono in evidenza le mende suddette, ma siamo comunque di fronte a un artista che conosce bene il ruolo e sa gestirlo in maniera accorta e matura.
La Liù di Carolina López Moreno ha commosso per la sua delicatezza e intensità interpretativa, e il piccolo incidente su una nota di un'aria non vanifica una prestazione di tutto rispetto.
Completano il cast Sergio Vitale (Ping), Andrea Tanzillo (Pang) e Tiziano Barontini (Pong), che hanno saputo dare vita a personaggi vivaci e ben caratterizzati. Non meno importanti le prove di Luca Dall'Amico come Un mandarino, di Andrea Volpini nel ruolo del Principino di Persia, e delle due Ancelle, Irene Celle e Maria Salvini, che hanno contribuito a un quadro musicale complessivamente valido.
Non del tutto convincente la prova del Coro del Festival Puccini, diretto dal M° Marco Faelli, la cui performance è apparsa nel complesso debole e priva di incisività. A mancare è stata quella densità sonora e quella forza espressiva che dovrebbero caratterizzare i grandi momenti corali di Turandot, specialmente laddove la partitura pucciniana esige un magma sonoro compatto, travolgente, pulsante. Le voci, invece, sono sembrate spesso scollegate, con un amalgama fragile e una resa dinamica poco articolata. Le entrate, in particolare, hanno evidenziato problemi di coesione: sfasate, imprecise, talvolta quasi incerte, non riuscendo a restituire l'impatto scenico e musicale atteso in una produzione di questo livello.
Di tutt'altro segno, invece, la prestazione del Coro di voci bianche del Festival, preparato e diretto con cura dal M° Viviana Apicella. I giovani cantori hanno offerto un contributo misurato, preciso e luminoso, dimostrando una sorprendente padronanza della parte e un equilibrio timbrico particolarmente efficace. Il loro intervento, seppur limitato nella durata, si è distinto per nitidezza, intonazione accurata e coesione, confermando quanto la formazione delle voci giovanili rappresenti oggi una risorsa preziosa per l'architettura sonora dell'opera.
Meglio l'Orchestra del Festival Puccini che ha saputo offrire una lettura musicale solida, vibrante e teatralmente ispirata, rivelandosi uno degli elementi portanti di questa produzione. Sotto la direzione del M° Renato Palumbo, l'organico orchestrale ha restituito con rigore e partecipazione la sontuosità della scrittura pucciniana, fatta di contrasti dinamici, colori cangianti e una tensione drammatica sempre sottesa, anche nei momenti liricamente più sospesi.
Palumbo affronta Turandot con intelligenza analitica e sensibilità teatrale, cesellando con cura ogni frase musicale, ogni transizione timbrica, ogni cesura espressiva. Il suo gesto sa tenere insieme la monumentalità e la raffinatezza della partitura, muovendosi con padronanza fra il gelo algido che circonda la principessa e il calore umano dei personaggi secondari. L'equilibrio tra buca e palcoscenico, tra orchestra, coro e solisti, risulta generalmente ben calibrato - almeno in termini di intenzione artistica.

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Tuttavia l'acustica del Gran Teatro all'aperto non sempre si dimostra alleata di questa cura esecutiva: le sonorità orchestrali, pur ricche e stratificate, vengono talvolta disperse o schiacciate da una propagazione sonora poco uniforme, che penalizza soprattutto le dinamiche più sfumate e le voci nei momenti di maggiore densità strumentale. Ne risente la percezione complessiva del disegno musicale, che in più occasioni perde nitidezza e profondità, tradendo - per così dire - l'ottimo lavoro di concertazione.
Un limite tecnico strutturale, dunque, che non offusca la qualità dell'interpretazione, ma che ricorda quanto la resa acustica resti una delle grandi sfide di questo teatro. Palumbo e l'Orchestra, dal canto loro, vincono comunque la partita sul piano espressivo, regalando al pubblico una lettura appassionata, rigorosa e coerente con la natura ambiziosa dell'opera.
In conclusione, questa Turandot si è imposta come un evento di forte richiamo, capace di mobilitare un pubblico ampio e partecipe. La serata ha fatto registrare un successo significativo in termini di affluenza e di incasso, confermando ancora una volta la vitalità del Festival Puccini e la sua forza attrattiva, che travalica le singole valutazioni artistiche e si radica in un patrimonio culturale e affettivo profondamente condiviso.
Eppure, è impossibile non registrare le ombre che hanno attraversato la serata: una regia che, riproposta a distanza di otto anni, conferma limiti già evidenziati e mai realmente superati; una tenuta scenica che alterna intuizioni visive a soluzioni stanche e ornamentali; un'acustica ancora deficitaria, che mortifica il lavoro dell'orchestra e penalizza i cantanti proprio nei momenti più delicati.
E poi la pioggia. Quella pioggia che, improvvisa e ostinata, sembrava voler chiudere il sipario in anticipo, ma che invece ha finito per spalancare un'altra porta: quella della verità teatrale, dell'incontro ravvicinato tra artista e spettatore, senza filtri né artifici.
È stato lì, nel foyer del teatro, tra sedie spostate, luci di fortuna e accompagnamento pianistico, che la musica di Puccini ha trovato un altro luogo autentico: lontana dalla macchina spettacolare, vicina al battito del cuore.
E così, a dispetto di tutto - del tempo passato, delle polemiche, della pioggia e delle convenzioni - Puccini ha ripreso a parlare. A chi voleva ascoltarlo, a chi sapeva accoglierlo. Oggi come allora.
(La recensione si riferisce alla "prima" del 25 luglio 2025)

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Crediti fotografici: Marilena Imbrescia e Giorgio Andreuccetti per il Festival Puccini 2025
Nella miniatura in alto: il soprano Anna Pirozzi (Turandot)
Sotto: panoramica sul terzo atto eseguito al pianoforte nel foyer; da sinistra, Gregory Kunde (Calaf),
Carolina L
ópez Moreno (Liù), Anna Pirozzi e (in primo piano) il direttore artistico del Festival, Angelo Taddeo
Al centro, in sequenza: Gregory Kunde; Michele Pertusi (Timur) con
Carolina López Moreno; Anna Pirozzi; le tre maschere, Sergio Vitale (Ping
), Andrea Tanzillo (Pang) e Tiziano Barontini (Pong) con Gregory Kunde
Sotto, in sequenza: Luca Dall'Amico (Un Mandarino);
Carolina López Moreno con Michele Pertusi e Gregory Kunde; Carolina L
ópez Moreno (Liù torturata da Putin Pao); Anna Pirozzi; panoramica sull'allestimento
In fondo, in sequenza: due belle istantanee su Michele Partusi (Timur) e
Carolina L
ópez Moreno (Liù); ancora Anna Pirozzi e Gregory Kunde

 





Pubblicato il 19 Luglio 2025
L'apertura del Festival Puccini 2025 ha fatto il tutto esaurito e il pubblico č rimasto contento
Tosca pių realistica che verista intervento di Athos Tromboni

20250719_TorreDelLago_00_Tosca_AleksandraKurzak_phGiorgioAndreuccettiTORRE DEL LAGO PUCCINI (LU) - Serata calda e afosa, quella di ieri, per l'inaugurazione del Festival Puccini 2025 con Tosca. L'afflusso di pubblico, fin dalle 18, aveva fatto presagire che il "tutto esaurito" comunicato dalla biglietteria sarebbe stato record. Nei prossimi giorni vedremo se sarà così. Tosca è un titolo molto amato dai melomani e a stuzzicare il favore di chi ama Puccini c'erano più elementi: prima di tutto la regia affidata ad Alfonso Signorini e la sua dichiarazione di volersi attenere a una messa in scena tradizionale; poi il cast che vedeva schierate voci di primo piano del panorama lirico internazionale: Aleksandra Kurzak per il ruolo eponimo, Roberto Alagna per Cavaradossi e Luca Salsi per Scarpia; infine last but not least la bacchetta affidata a Giorgio Croci, sconosciuto ai più, quindi atteso ad una prova del fuoco (o dell'acqua, visto che il Gran Teatro all'aperto s'incunea dentro il Lago di Massaciuccoli...) per un titolo che oltre ad essere molto amato è anche interpretativamente conosciuto per come l'hanno diretto e inciso i più grandi direttori del Novecento e di questo scorcio di Terzo Millennio.
E dunque partiamo dalla regia: piuttosto che tradizionale si potrebbe dire che la messa in scena della Tosca di quest'anno è stata rispettosa della tradizione con qualche iperbole creativa ideata da Signorini, che ha curato anche i costumi (belli, molto belli). Impianto scenico essenziale, con un fronte cupo, nero e oro, recante la scritta "Homo praevaricationem morte". Il fronte compatto e incombente per il primo atto si suddivideva poi in tre parti per il secondo atto evidenziando così la parola "praevaricationem", mentre nel terzo atto campeggiava la parole "morte". Uno e trino soprattutto nei suoi significati, dunque, ma anche evocativo.
L'iperbole registica più temeraria la si è vista durante il Te Deum che chiude il primo atto: il fronte compatto si scompone, la parte centrale ruota su sé stessa e al posto della scritta "praevaricationem" appare un grande ostensorio a cui viene applicata dal Cardinale celebrante (vestito con càsula, piviale, càmice e mitria) un'ostia luminosa; dopo di che l'ostensorio si innalza sempre più su, sempre più su. Perfetta descrizione del feticismo che orna molta parte della liturgia corrente, soprattutto quella più ricca di sfarzo.

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Questo è un momento topico del realismo cui si è ispirata la regia; altro momento topico, quello della fucilazione di Cavaradossi, nel terzo atto, che mostra l'arroganza e la malafede di Scapria quando promette una "fucilazione simulata, come per il Conte Palmieri" poi il tutto diventa la simulazione di una simulazione, da cui la imprescindibile fucilazione vera di Cavaradossi ordinata a Spoletta.
Certo, l'ostensione con tanto di salita al cielo dell'ostia luminosa è stata un colpo di teatro che ha scatenato l'applauso del pubblico ma - per controverso - ha anche condito di frasi sibilline i sussurrati pronunciamenti a caldo di certa critica militante sulla "pochezza" e sull'effettaccio di una tale trovata.
Ostensione e fucilazione sono narrate così da Signorini e diventano il momento-simbolo dell'intera opera.
Le reazioni di certa critica militante? Siamo alle solite,  la Tosca in minigonna non scandalizza più, anzi nevermore con due negazioni in una come gracchiò il corvo di Edgar Alla Poe, mentre il ricorso simbolico e fattuale al feticismo della nostra religione, individuando per necessaria brevità e speditezza scenica pochi minuti d'effetto fuori del libretto di Illica e Giacosa ma dentro la realtà, diventa -  per qualcuno che la sa lunga - una "pochezza".
Altra iperbole: Scarpia, nel secondo atto, si mostra a Tosca con modi cortesi e ironici, ma poi tenta di stuprarla ben prima che lei si conceda alle voglie del "prevaricatore", nel tentativo di salvare dalla forca l'amato Cavaradossi; l'aggressione del barone Scarpia alla donna non è solo verbale, ma anche fisica, mani impegnate a sollevare fin quasi alle mutandine l'elegante abito di Tosca, lotta furibonda sul divano per sottometterla al coito, schiaffi e divincolamenti di Tosca da persona che non si avvilisce ma lotta contro un bruto. E Scarpia non ce la farà a stuprarla, ma ci ha provato.
Altra iperbole registica: Cavaradossi non viene nascosto fuori scena, dietro la porta chiusa, durante la tortura; questa avviene in scena: ed è un Cavaradossi torturato a vista, dunque.
Ma, in fondo, quelle che qui abbiamo definito "iperbole"  sono nientaltro che rappresentazioni sceniche di un realismo del quotidiano, vicende di vita e di morte testimoniate dalla storia e dalla cronaca. E allora perché arricciare il naso, tenuto conto che proprio Tosca è l'unica opera (forse) verista del sor Giacomo? Desdemona non viene strozzata in scena da Otello? e Carmen pugnalata da Don José? e Maria accoltellata da Wozzek? E la "rappresentazione" non può ispirarsi al vero, andando al di là dell'attributo scolastico e catalogatorio di opera verista?
Alla luce di questi ragionamenti e delle conseguenti domande formulate sopra, forse "iperbole" non è la parola adatta, perché indurrebbe a pensare ad una esagerata scelta drammaturgica, mentre invece la rappresentazione si è semplicemente ispirata al vero, e soprattutto al vero del proprio tempo storico e (forse) di tutti i tempi quando il potere si fa sopruso.
Per questo la regia ci è sembrata molto pertinente ai personaggi e alla vicenda narrata. E anche molto abile nell'organizzare il movimento delle masse e dei singoli in scena, puntando al racconto anziché alle elucubrazioni intellettualistiche infarcite di pochi "pro" e di tanti "contro".
Il bel lavoro di Signorini si è avvalso della funzionale scenografia di Juan Guillermo Nova e delle ottime luci di Valerio Alfieri.
Al termine della rappresentazione tutti gli artisti sono stati a lungo applauditi, con l'applauso più caloroso riservato però a Luca Salsi, primus inter pares.

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E in effetti Salsi è stato decisamente il migliore, per canto e recitazione, per gesto scenico e capacità mimiche: il suo Barone Scarpia è risultato veramente un gaglioffo, ha dimostrato quanto sia schifoso l'esercizio del potere quando i gaglioffi che stanno sul ponte di comando prevaricano sapendo di essere impuniti nel loro agire e impunibili anche nelle loro manifeste perversioni. Sulla vocalità di Salsi non esitiamo a dire che ci troviamo di fronte a una delle voci baritonali più belle degli ultimi due o tre lustri. Ma non solo: lui canta e recita senza guardare mai la bacchetta del direttore, agendo di fronte e intorno agli altri che gli ruotano d'attorno, in modo tale che il ruolo entra veramente nella verità drammatica del momento e del personaggio. Bravissimo.
Si è fatta valere anche Aleksandra Kurzak nel ruolo di Tosca: ottima attrice, degna spalla del Salsi in quanto a gesto scenico e mimica. Sconta una non perfetta accentazione dell'italiano nelle parole più declamate o dette con voce naturale, ma nel canto, nel fraseggio e nella dispiegata melodia è una vera ricamatrice sia per intonazione che per tenuta dei fiati.
Meno entusiasmo ha suscitato in noi la prova di Roberto Alagna: siamo sempre di fronte ad un bravo tenore che conosce il mestiere, ma l'impressione, quando canta, è che non riesca a entrarti sotto la pelle, non riesca cioè a farti vibrare dentro i palpiti delle emozioni e del sentimento. Ha cantato senza recitare, attento alle note e agli acuti, ma altrettanto attento - sempre - alla bacchetta del direttore, per cui se Tosca gli era dietro le spalle o di fianco, egli guardava la platea, anzi il direttore, e rivolgendosi a lei in un modo estraniato, faceva sfumare il pathos dell'interpretazione e quindi il transfert dalle emozioni del personaggio alle emozioni dello spettatore
Per il resto del cast, tutti bravi e preparati: Luciano Leoni era Cesare Angelotti, Claudio Ottino era il Sagrestano, Francesco Napoleoni era Spoletta, Paolo Pecchioli era Sciarrone, Omar Cepparolli era il Carceriere e Francesca Presepi il Pastorello.
Bravo il coro del Festival Puccini diretto da Marco Faelli e bravissimo il coro di voci bianche istruito da Viviana Apicella.
Orchestra ben condotta da Giorgio Croci. Ha adottato tempi comodi, non serrati, ma la sua concertazione è stata ricca di colori e le brevi pause adottate (certo consapevolmente, e non arbitrariamente) nei momenti di maggior tensione musicale e drammatica hanno delineato la sua personale lettura della partitura, sicuramente interiorizzata. Niente da eccepire, Puccini non è stato deturpato né dalla regia, né dalla concertazione. Anzi... il pubblico pagante ha dimostrato d'essere rimasto contento dell'allestimento nuovo nuovo di questa Tosca. Molto contento.

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(la recensione si riferisce alla recita di venerdì 18 luglio 2025)

Crediti fotografici: Marilena Imbrescia e Giorgio Andreuccetti per il Festival Puccini 2025
Nella miniatura in alto: Aleksandra Kurzak (Tosca)
Sotto: i due momenti-simbolo della rappresentazione: il feticismo della celebrazione dell'Eucarestia e il tradimento di Scarpia a Tosca con la fucilazione vera di Cavaradossi
Sotto, in sequenza: Roberto Alagna (Cavaradossi), Luca Salsi (Scarpia); Aleksandra Kurzak; e Claudio Ottino (Sagrestano) con il coro di voci bianche prima del Te Deum
Al centro, in sequenza: Aleksandra Kurzak con Claudio Ottino; Aleksandra Kurzak con Roberto Alagna; la Kurzak e Alagna e sulla destra l'immagine dell'Attavanti secondo il disegno dello scenografo Juan Guillermo Nova; Roberto Alagna in attesa di fucilazione nel finale dell'opera; Luciano Leoni (Angelotti) con Roberto Alagna nel primo atto; Aleksandra Kurzak; ancora la Kurzak con Luca Salsi; scena della tortura di Cavaradossi
In fondo: bellissimo scatto di Andreuccetti per fissare l'espressione della Kurzak/Tosca sul corpo torturato di Cavaradossi; panoramica dal drone del Gran Teatro all'aperto di Torre del Lago Puccini ripresa un momento prima dell'inizio della recita





Pubblicato il 26 Giugno 2025
La Los Angeles Opera mette in scena uno spettacolo affidandolo a una regia criticabile e criticata
Rigoletto adesso č un clown intervento di Ramón Jacques

20250626_00_LosAngeles_Rigoletto_QuinnKelsey_phCoryWeaverLOS ANGELES (Usa), Dorothy Chandler Pavilion 12 giugno 2025 - È impossibile essere amanti della musica e rimanere indifferenti al piacere di ascoltare le note di Rigoletto dal vivo in un teatro. Sebbene non sia trascorso molto tempo dalla sua ultima rappresentazione al Dorothy Chandler Pavillion, sede della compagnia di Los Angeles "LA Opera" (l'ultimo Rigoletto andò in scena nel 2018), non si tratta di un titolo rappresentato con frequenza in questo luogo. Le uniche altre produzioni degne di nota sono state quelle delle stagioni 1993, 2000 e 2010.
Quest’opera in tre atti, con musica di Giuseppe Verdi (1813-1901) e libretto di Francesco Maria Piave, è tratta da "Le roi s’amuse" di Victor Hugo. Considerata uno dei primi capolavori del periodo centrale del compositore, Rigoletto si scontrò con la censura austriaca che controllava i teatri dell’Italia settentrionale al momento della sua prima rappresentazione alla Fenice di Venezia dove ebbe la sua prima assoluta l’11 marzo 1851. Ironia della sorte, le ragioni della sua censura, che all’epoca venivano attribuite alla rappresentazione di immoralità, corruzione e oscena banalità dei governanti e della gente di potere, sembrano essere diventate una parte normale della società attualmente .
Rigoletto è stato scelto per concludere la nuova stagione alla Los Angeles Opera. Questa scelta, insieme a tutti gli altri titoli della prossima stagione, ha un significato particolare nella carriera del maestro James Conlon, segnando il suo addio alla direzione musicale del teatro dopo vent’anni. Il suo successore, il direttore venezuelano Domingo Hindoyan, inizierà da qui a scrivere la propria storia musicale, provando a mantenendo un livello qualitativo elevato per raggiungere quello del predecessore.
Le recensioni delle precedenti produzioni di Rigoletto in questo teatro, quasi tutte, evidenziano una certa delusione da parte del pubblico nella parte scenica dello spettacolo: il ricorso a un’estetica hollywoodiana non è stato accolto positivamente. In questa occasione, l’obiettivo scenico e attoriale non sembra essere stato pienamente raggiunto.

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La produzione, frutto di una collaborazione tra i teatri di Atlanta, Houston e Dallas, non sembra aver reso giustizia alla tragica vicenda di Rigoletto, del Duca di Mantova e di Gilda, gravata dalla maledizione di Monterone.
L’allestimento di Ernhard Rom si caratterizzava per ampie mura con colonne doriche che delimitavano il fondale e i lati del palcoscenico. Al centro, una struttura girevole ospitava, da un lato, un grande dipinto e un’ampia scalinata che rappresentavano il palazzo del Duca, dall’altro, il balcone e la facciata della casa di Rigoletto, utilizzata anche come interno del covo di Sparafucile. L’ambientazione era quella degli anni Venti, con i cortigiani vestiti in smoking e maschere che celavano ed esaltavano la loro dissolutezza (con una recitazione eccessivamente enfatica e sovraccaricata ). L’illuminazione soffusa di Robert Wierzel evocava un’atmosfera da psicodramma o film noir.
In questa rappresentazione di Rigoletto, il protagonista non era il tipico gobbo della storia, bensì un clown da circo, vestito con colorati costumi da arlecchino, trucco bianco sul viso e parrucche. Anche il trucco sulle sopracciglia di Gilda, come di altri personaggi, e la presenza di ballerini e giocolieri rimandavano a una scena di Pagliacci di Ruggero Leoncavallo ma non di Rigoletto.
Le incongruenze e le incoerenze risiedevano nella regia di Tomer Zvulun (regista e direttore dell'Opera di Atlanta), che abusava della recitazione e del comportamento libertino dei cortigiani e del Duca, con scene di violenza rozze e inutili, come la pugnalata e il brutale assassinio di Monterone, completata dal Duca. Nel terzo atto, il fantasma sanguinante del personaggio appare mentre un corteo ne trasporta il sarcofago e Rigoletto giura vendetta . Nella scena finale, Rigoletto, credendo che il corpo consegnatogli da Sparafucile fosse quello del Duca, lo pugnala più volte con odio, ignaro che si trattasse di Gilda. L’interazione finale tra Rigoletto e Gilda mostrava il fantasma della figlia che cantava accanto al suo corpo. Questi sono i capricci di registi che cercano di emergere imponendo idee assurde che non contribuiscono in alcun modo alla storia o alla performance, e questi dettagli scenici non vengono menzionati per un tema moralista ma perché sembrano uscire dallo scopo della trama.
Oserei persino dire che queste scene contrastavano con l’atmosfera tesa che circondava lo spettacolo nelle strade circostanti il teatro, dove a metà spettacolo era stato imposto un coprifuoco nella città di Los Angeles, comunicato al pubblico tramite un avviso sui cellulari. Conferendo alla situazione un tono drammatico e direi  quasi operistico protagonisti gli spettatori, i biglietti del teatro sarebbero poi serviti come lasciapassare (con le autorità per le strade) per il pubblico per uscire dal teatro al termine dello spettacolo.

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La parte vocale è stata ampiamente soddisfacente: Lisette Oropesa, che aveva già interpretato qui il ruolo della Gilda nel 2018, è stata una piacevole sorpresa in sostituzione di Rosa Feola, inizialmente annunciata. Oropesa ha commosso e stupito con il suo trattamento virtuoso, sicuro e cristallino della voce. Ogni nota e ogni frase hanno trovato senso nella sua interpretazione, così come la sua musicalità, la varietà di colori e il modo in cui si è dilettata nelle note più alte della sua parte.
Nel ruolo di Rigoletto, il baritono hawaiano Quinn Kelsey ha dimostrato le qualità vocali necessarie per un’interpretazione di rilievo. Il suo timbro era robusto, rotondo e solido. Tuttavia, la sua rigidità e durezza scenica, a tratti irritante, hanno penalizzato una rappresentazione credibile del personaggio, già di per sé caratterizzato da un’immagine caricaturale.
Il tenore René Barbera ha infuso calore ed esplosività alla sua interpretazione vocale del Duca di Mantova. Il suo timbro ha acquisito corpo e ha cantato con eleganza e buona proiezione. Dal punto di vista attoriale, tuttavia, è stato deludente, una situazione attribuibile principalmente a una regia poco appropriata.
Il basso cinese Peixin Chen, nel ruolo di Sparafucile, e il mezzosoprano Sarah Saturnino, in quello di Maddalena, sono stati precisi e abili, nonostante i costumi scialbi e stravaganti (lui come clown da circo, lei come flapper girl, ubriacona degli anni '20 del Novecento).
Blake Denson ha sfoggiato una voce potente e vigorosa nei panni di Monterone. Il cast era completato dal tenore Nathan Bowles, nel ruolo di Borsa, dal baritono Hyugjin Son, in quello di Marullo, dal basso brasiliano Vinícius Costa, nel ruolo del Conte di Ceprano, dal soprano Gabrielle Turgeon, nei ruoli della Contessa di Ceprano e del Paggio, e dal mezzosoprano Madeleine Lyon, con un’ammirevole brillantezza vocale nel ruolo di Giovanna. Tutti questi artisti facevano parte dell’accademia del teatro.

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Il coro, diretto dal Maestro Jeremy Frank, ha contribuito con entusiasmo, professionalità e coesione. Sotto la direzione di James Conlon, l’orchestra ha offerto un’interpretazione ispirata, caratterizzata da competenza, intuizione e passione per un suono ricco e armonioso. L'assenza o comunque la minore frequenza di questo grande Maestro alla Los Angeles Opera si farà indubbiamente sentire, e sarà difficile sostituirlo come direttore d’orchestra, anche e soprattutto per i suoi immancabili e interessanti interventi/conferenze nella hall del teatro un’ora prima di ogni spettacolo da lui diretto, una consuetudine unica tra i direttori d'orchestra, che io non ho mai visto in un altro teatro.
(La recensione si riferisce alla recita di giovedì 12 giugno 2025)

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Crediti fotografici: Cory Weaver per la Los Angeles Opera
Nella miniatura in alto: il baritono Quinn Kelsey (Rigoletto)
Sotto, in sequenza: Kelsey con Lisette Oropesa (Gilda) e René Barbera (Duca di Mantova)
Al centro: panoramica sui costumi voluti dal regista Tomer Zvulun
Sotto, in sequenza: René Barbera; Quinn Kelsey
 (Rigoletto che pugnala il sacco e che "vede" il fantasma di Gilda)
In fondo: panoramica sul Coro diretto dal Maestro Jeremy Frank






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La bohčme disegnata da Scola
servizio di Simone Tomei FREE

20250808_TorreDelLago_00_LaBoheme_CarloRaffaelli_phGiorgioAndreuccetti.JPGTORRE DEL LAGO (LU) - Tra i capolavori pucciniani La Bohème occupa un posto di privilegio per la sua capacità di fondere realismo e poesia, leggerezza giovanile e dramma struggente. Dal debutto del 1º febbraio 1896 al Teatro Regio di Torino, sotto la bacchetta di un giovane Arturo Toscanini, questo dramma lirico in quattro quadri - tratto dalle
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Jazz Pop Rock Etno
Ferrara Film Orchestra e la bacchetta di Ambra
servizio di Athos Tromboni FREE

20250803_00_GiardinoPerTutti_FerraraFilmOrchestra_CristinaColettiFERRARA - La prima serata della rassegna Giardino per tutti organizzata ai piedi del grattacielo dal Comune di Ferrara con la collaborazione del Teatro Comunale "Claudio Abbado", dentro il Parco Coletta, ha fatto l'en-plein. Era in pedana la Ferrara Film Orchestra capitanata dalla bacchetta di Ambra Bianchi
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Opera dal Centro-Nord
Buratto bel debutto in Tosca
servizio di Simone Tomei FREE

20250802_TorreDelLago_00_Tosca_EleonoraBuratto_phGiorgioAndreuccettiTORRE DEL LAGO PUCCINI (LU) - Nel terzo fine settimana del 71° Festival Puccini di Torre del Lago, la seconda recita di Tosca ha riproposto uno degli allestimenti più attesi di questa edizione. La produzione, firmata da Alfonso Signorini in veste di regista e costumista, si è presentata con una veste visiva marcatamente simbolica, ricca di richiami
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Opera dal Nord-Est
Nabucco Carmen La traviata
servizio di Angela Bosetto FREE

20250731_Vr_00_Nabucco_StefanoPodaVERONA – Anna Netrebko, Anita Rachvelishvili e Rosa Feola, ovvero Abigaille, Carmen e Violetta Valéry. Sono loro le tre grazie musicali che, dal 17 al 19 luglio 2025, hanno acceso l’Arena, rendendo ciascuna rappresentazione meritevole di grande interesse in virtù della propria peculiarità. Per il soprano russo si trattava del debutto italiano come figlia
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Jazz Pop Rock Etno
Verdi e il jazz un dialogo
servizio di Simone Tomei FREE

20250727_Fabbiano_00_ValtidoneFestival_AlessandroBertozziFABBIANO, Borgonovo Val Tidone (PC) - Nella serata di sabato 26 luglio 2025, un angolo a me ancora misconosciuto della Val Tidone, la suggestiva piazzetta di Fabbiano, frazione di Borgonovo Val Tidone, si è trasformato in un crocevia di sublime audacia musicale. Il Valtidone Festival, giunto alla sua 27ª edizione e promosso dalla
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Opera dal Centro-Nord
Ecco la Bohčme che ti aspetti
servizio di Athos Tromboni FREE

20250720_TorreDelLago_00_LaBoheme_PierGiorgioMorandi_phGiorgioAndreuccettiTORRE DEL LAGO PUCCINI (LU) - Un po' meno pubblico per La bohème rispetto alla Tosca della sera precedente, nel Gran Teatro all'aperto sul Lago di Massaciuccoli. Comunque una buona presenza (diciamo a spanne, oltre 2 mila spettatori?) per un ritorno, quello della regia "cinematografica" di Ettore Scola del 2014 ripresa da
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Opera dal Centro-Nord
Un magico Elisir
servizio di Simone Tomei FREE

20250716_Fi_00_LElisirDAmore_AntonioMandrrillo_phMicheleMonastaFIRENZE - L'elisir d'amore di Gaetano Donizetti è un capolavoro senza tempo che, a quasi due secoli dalla sua prima rappresentazione, continua a incantare e commuovere. Definito "melodramma giocoso", fonde mirabilmente la profondità patetica con l'arguzia dell'opera buffa italiana, creando una "commedia agrodolce" capace di strappare
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Echi dal Territorio
79 anni di emozioni
redatto da Athos Tromboni FREE

20250715_Spoleto_00_Stagione2025_AntonioAgostini_phRomboniDalleLucheSPOLETO (PG) - Partirà il 7 agosto 2025 per concludersi il 24 settembre la nuova Stagione lirica del Teatro Lirico Sperimentale "A. Belli" giunta al lodevole traguardo della 79.ma edizione. Gli spettacoli, oltre che nella città spoletina, andranno in scena anche nei principali teatri dell'Umbria: «79 anni di emozioni, una stagione da vivere!» è lo slogan
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Jazz Pop Rock Etno
La notte degli Oscar
servizio di Athos Tromboni FREE

20250711_Vigarano_00_GruppoDei10_DadoMoroniVIGARANO MAINARDA (FE) - La "Notte degli Oscar" del Gruppo dei 10 idea uscita dalla testa di Alessandro Mistri (così come Pallade Atena uscì dalla testa di Zeus, ci racconta il poeta greco Esiodo) ha visto una nutrita partecipazione di pubblico allo Spirito di Vigarano Mainarda.
Non poteva essere altrimenti
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Jazz Pop Rock Etno
De Silva amore che vieni amore che vai
servizio di Athos Tromboni FREE

20250707_Comacchio_00_GruppoDei10_DiegoDeSilvaCOMACCHIO (FE) - Ha preso il via ieri sera con una nutrita partecipazione di pubblico il ciclo di sei concerti del "Gruppo dei 10" versione estiva: Tutte le direzioni in summer time 2025. Ospite per l'apertura era il Trio Malinconico formato da Diego De Silva (voce e chitarra acustica), Stefano Giuliano (sax alto) e Aldo Vigorito (contrabbasso). Prima della
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Eventi
Opera tra tradizione e novitā
redatto da Simone Tomei FREE

20250703_Ge_00_StagioneCarloFelice_MicheleGalliGENOVA - È un viaggio simbolico e culturale quello che il Teatro Carlo Felice di Genova propone per la stagione 2025-2026, presentata ufficialmente alla stampa lo scorso 2 luglio. Un viaggio che coinvolge artisti e pubblico come naviganti di una stessa rotta, guidati da una bussola che punta al repertorio lirico più amato, ma non rinuncia a
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Opera dal Nord-Est
L'Aida di cristallo č tornata
servizio di Simone Tomei FREE

20250701_Vr_00_Aida_DanielOren_phEnneviFotoVERONA - Quando l’Aida di Giuseppe Verdi risuona all’Arena di Verona non si tratta di una semplice replica, è un rito collettivo, un appuntamento simbolico che scandisce il calendario della lirica estiva. Questa nuova ripresa dell’allestimento firmato da Stefano Poda, definito “di cristallo” per le sue trasparenze e gli inediti giochi di luce, ha riaperto il sipario
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Opera dall Estero
Idomeneo a San Francisco
servizio di Ramón Jacques FREE

20250701_00_SanFrancisco_Idomeneo_MatthewPolenzani_phCoryWeaverSAN FRANCISCO (USA) War Memorial Opera House - Sebbene Idomeneo, l’opera seria in tre atti di Wolfgang Amadeus Mozart (1756–1791), abbia avuto la sua prima americana il 4 agosto 1947 al Berkshire Music Festival di Tanglewood, nel Massachusetts (ora sede estiva della Boston Symphony Orchestra), fu la San Francisco Opera a
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Opera dal Nord-Est
Blue Traviata in Arena
servizio di Angela Bosetto FREE

20250630_Vr_00_LaTraviata_AngelBlue_phEnneviFotoVERONA – “È spenta!” Quando la tonante voce di Giorgi Manoshvili risuona nell’Arena, segnando il termine della prima Traviata stagionale, si viene quasi colti da un senso di sorpresa. Per quanto chiunque frequenti il teatro lirico conosca a menadito il libretto di Francesco Maria Piave, è inevitabile chiedersi da quanto tempo non si assisteva
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Opera dal Centro-Nord
Matrimonio in camera da letto
servizio di Athos Tromboni FREE

20250630_Fe_00_IlMatrimonioSegreto_GerardoFelisatti_phMarcoCaselliNirmalFERRARA - L'allestimento di Il matrimonio segreto di Domenico Cimarosa su libretto di Giovanni Bertati ha chiuso la stagione d'opera del Teatro Comunale "Claudio Abbado" con un vero successo di pubblico: sia per la presenza di tanti spettatori in platea e nei palchi, sia per il calore con cui è stata salutata la recita a fine serata. La produzione era il
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Opera dal Nord-Est
Tosca sugli spalti di San Giusto
servizio di Rossana Poletti FREE

20250630_Ts_00_Tosca_EnricoCalesso_phFabioParenzanTRIESTE – Castello di San Giusto. Non è l’Arena di Verona e men che meno Castel Sant’Angelo, ma gli spalti di San Giusto, le pietre antiche che contornano il grande piazzale delle Milizie, suscitano nella Tosca di Giacomo Puccini, in scena a Trieste, il senso di incombenza del pericolo, della morte che la musica del grande compositore regala al pubblico,
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Opera dal Centro-Nord
Aida nella palestra
servizio di Nicola Barsanti FREE

20250628_Fi_00_Aida_DamianoMichielettoFIRENZE –  Opera emblema del grande repertorio verdiano, Aida è spesso associata all’idea di spettacolarità, grandi masse corali, scene sontuose e sontuosi costumi esotici. Tuttavia, dietro la patina dell’epico e del monumentale, si cela un’anima intimista, quasi cameristica: Aida è, in fondo, una tragedia dell'amore e del potere, fatta di sguardi, silenzi,
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Echi dal Territorio
Torna la rassegna Tutte le Direzioni Estate
servizio di Athos Tromboni FREE

20250627_Fe_00_GruppoDei10_MassimoCavallerettiFERRARA - Torna l'estate e, come ogni anno, torna anche la programmazione "balneare" del Gruppo dei 10: Tutte le direzioni in summertime 2025, la canonica rassegna estiva conterà quest'anno sei appuntamenti, dal 6 luglio al 12 settembre che si svolgeranno per due concerti nella consolidata location del Bar Ragno di Comacchio in via Cavour 1
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Opera dal Nord-Est
Candide da Voltaire a Bernstein
servizio di Rossana Poletti (13 giugno 2025) FREE

20250614_Ts_00_Candide_KevinRhodes_phFabioParenzanTRIESTE - Teatro Lirico “Giuseppe Verdi”. Per quale motivo Leonard Bernstein scelse il romanzo filosofico “Candide” di Voltaire per scrivere un’opera che lo proiettasse nel mondo lirico? Il primo motivo è certamente la questione politica. Nel dopoguerra l’America è dominata dal Maccartismo (un po’ come oggi dal trumpismo, ma guarda
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Opera dall Estero
L'Incoronazione di Poppea piace
servizio di Ramón Jacques FREE

20250612_00_Bogota_LIncoronazioneDiPoppea_PedroSalazarBOGOTÁ (Colombia), Teatro Mayor Julio Mario Santo Domingo - L’Incoronazione di Poppea (SV 308) è l’ultima composizione operistica di Claudio Monteverdi (1567–1643), autore italiano a cui si attribuisce il merito di aver contribuito alla nascita dell’opera lirica. La sua lunga carriera, che lo vide impegnato come direttore di coro (fu maestro di cappella
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Opera dall Estero
Tannhäuser torna a Houston
servizio di Ramón Jacques FREE

20250507_00_Houston_Tannhauser_FrancescaZambelloHOUSTON (USA) - Grand Opera. Wortham Theatre Center. La Houston Grand Opera ha concluso con successo un’altra stagione con Tannhäuser, un’opera in tre atti con musica e libretto in tedesco di Richard Wagner (1813-1883). Come la maggior parte delle sue opere, Tannhäuser trae ispirazione da leggende medievali tedesche. La quinta opera
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