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L'Opera di Firenze riallestisce un lavoro discusso e discutibile di Damiano Michieletto |
Il Barbiere col ramarro |
servizio di Simone Tomei |
Pubblicato il 08 Settembre 2015 |
FIRENZE - Prima di addentrarci in questo "racconto" di Il Barbiere di Siviglia di Gioachino Rossini in programmazione all'Opera di Firenze sul finale della stagione estiva, vogliamo aprire con due citazioni: la prima di Giuseppe Verdi che troviamo impressa su una parete del salone biglietteria, l'altra del regista dell'opera di cui discorreremo, Damiano Michieletto. Da una lettera di Giuserppe Verdi a Giulio Gatti Casazza (1898): «Il teatro è fatto per portarci il pubblico, quante più persone possibile. La sala piena, non altro: ecco l'unica prova di un successo vero.» Damiano Michieletto note di regia: «Questa regia è un gioco di fantasia e di evocazione. Gli spazi della storia sono sempre evocati, mai rappresentati. La possibilità di evocare la presenza di qualcosa sul palcoscenico è uno degli aspetti affascinanti del teatro. Perciò ho cercato di usare degli oggetti normali e semplici e di farli diventare l’ingrediente unico della scenografia. Il risultato è che mi sono trovato con un palcoscenico in cui una ventina di sedie rosse, una scala blu, degli ombrelli e alcuni enormi palloni erano tutto quello che bastava. I personaggi sono come esplosi nelle loro caratteristiche fisiche e caricaturali. Ecco perciò dei costumi fantastici, di pura immaginazione, con marcati riferimenti a tratti animaleschi, quasi da Commedia dell’Arte. L’ouverture inizia con un viaggio, in treno. Un viaggio che sembra partire in modo normale, senza nessun imprevisto, ma ad un certo punto il ritmo del treno comincia a crescere, cresce, cresce, prende il volo e tutti i tranquilli passeggeri vengono catapultati involontariamente nell’opera diventando i protagonisti di questa surreale dimensione. Il leit motiv del viaggio costituisce la cornice narrativa entro la quale respira il libretto dell’opera, animato da invenzioni sceniche che sfiorano una dimensione circense e dove tutto quello che avviene è sostenuto da una visione coreografica delle relazioni.»

Visto che siamo all'interno di una recensione iniziamo a commentare la seconda, lasciando sul finale la prima. Ci preme sottolinare il fatto che se dobbiamo assistere ad una regia "alternativa" che non tiene conto più di tanto del libretto e delle indicazione dell'autore, non ci siamo mai scandalizzati, anzi, in molte occasioni abbiamo plaudito a queste invenzioni; la cosa che abbiamo sempre ritenuto fondamentale in queste ideazioni, era la logigità di quello che accadeva sul palcoscenico; il filo logico, la continuità di un discorso e soprattutto il "trait d'union" che si poteva trovare tra i personaggi. Ecco, in questo allestimento (originario del 2005) cui abbiamo assistito, non abbiamo trovato nulla di tutto questo: ottima e di buon gusto l'idea del viaggio come cornice di un contesto, se solo avesse trovato uno sviluppo ed una costanza all'interno dello svolgimento dell'azione; qui non è stato così, in quanto ci è sembrata una cosa molto fine a se stessa; l'assenza di scenografia, anch'essa non ci scandalizza, ma gli oggetti che il regista cita come bastanti al tutto, non avevano per noi una logicità ed un legame né con i tema inziale del viaggio, né con i personaggi, né con la trama, per non parlare poi dei costumi per i quali, pur sforzandoci, non siamo riusciti a trovare un senso logico; in ultimo infine un accenno ai movimenti scenici; su questi molto avremmo da dire, soprattutto perché il pensiero fondamentale del regista non ci è parso mai incentrato sul canto e sull'emissione del suono, ma precipuamente, alla sua idea di rappresentazione, mettendo spesso in difficoltà (ben affrontate) i cantanti, intenti e concentrati più nei movimenti, prevalentemente privi di significato, che non sulla vocalità. Molte pagine sono state scritte su questa regia da altri recensori, ed ognuno ha espresso il proprio legittimo parere; non ci dilunghiamo oltre perché ci preme lasciare lo spazio all'aspetto musicale che ci ha lasciati molto soddisfatti. Il capolavoro rossiniano molto spesso viene visto come un'opera routinaria, o per meglio dirla con linguaggio di teatro "un'opera di repertorio", ma ogni volta che viene rappresentata, cerchiamo sempre di trovare qualche cosa di più dell'ultimo ascolto per poter maggiormente cogliere le tante sfumature che si trovano all'interno dello spartito. In questa recensione citeremo gli interpreti dei personaggi nell'ordine in cui appaiono nel programma di sala.

Iniziamo da Rosina interpretata dal mezzosoprano Laura Verrecchia, che si è distinta per una bella emissione sicura e solida con una vocalità piuttosto importante che non l'ha limitiata nei melismi e negli abbellimenti risultando anch'essi sempre precisi, nonostante gli improbabili movimenti imposti dalla regia, che non hanno certo facilitato il compito; brava nell'aria di sortita e in quella della lezione; ottima la zona acuta, mai forzata e sempre morbita e altrettanto timbrata quella più grave, riuscendo sempre a dominare il suono proveniente dalla buca. Don Bartolo è stato interpetato da Alessio Verna che ci ha "impacchettato" un personaggio piuttosto grottesco dal punto di vista recitativo talvolta in maniera esagerata, riuscendo vocalmente comunque a non tradire quanto delineato dal compositore; ha snocciolato le sue difficili semicrome di Signorina un'altra volta quando Bartolo andrà fuori.... con grande agilità e precisione (nonostante le incursioni della "protetta" Rosina che disturbava il canto perché continuava costantemente a buttargli addosso cuscini gialli) risultando sempre comprensibili e ponendo sempre i giusti accenti e le giuste intenzioni dell'autore; di buon livello anche gli altri interventi ci hanno fatto assaporare una vocalità piuttosto importante, ma duttile per questo difficile ruolo.

Nel ruolo del barbiere Figaro, il baritono Vittorio Prato; gran carattere sulla scena e ottimo mattatore; voce piuttosto ben proiettata e timbrata, ottima estensione vocale che gli ha permesso di compiere un bellissimo acuto alla fine della Cavatina che gli è valso l'ovazione del pubblico, inoltre molto convincente nel duetto con il tenore nonostante una serie di posizionamenti sul palcoscenico piuttosto distraenti e confusi. Il Conte di Almaviva interpretato dal Tenore Filippo Adami, ha assolto puntualmente al compito, partendo piuttosto in sordina nella Cavatina iniziale, con qualche difetto di colore, di legato e qualche incertezza nelle agilità, migliorando poi nella Serenata con una vocalità più marcata; ottimo nei recitativi e nel finale Dolce nodo con un plauso per la sua interpretazione scenica, seppur molte volte sopra le righe per le scelte registiche. Il Don Basilio di Gabriele Sagona che poteva colpirci più per il suo abito da ramarro che non per le sue doti canore, è riuscito con la sua vocalità a farci quasi dimenticare i grotteschi colori del costume e gli improbabili movimenti scenici, evidenziando un timbro morbido ed elegante e una padronanza dello spartito di ottimo livello; una Calunnia ben timbrata, mai vocalmente sopra le righe, ma sempre di gran carattere con gli acuti finali ben tenuti e ben proiettati. Buona la Berta di Giuliana Gianfaldoni, nonostante uno spogliarello poco probabile durante la sua aria, è risultata poco credibile scenicamente, ma ha saputo ben riscattarsi vocalmente.

Completavano il cast un buon Fiorello di William Corrò ed un passabile ufficiale di Saverio Bambi. Il coro relegato nella buca dell'orchestra in camicia nera, in stile concerto, con lo spartito in mano, ha assolto con precisione ai compiti imposti dalla musica risultando talvolta un pochino scollegato con quanto accadeva sul palcoscenico; non per presa di posizione, ma attribuiamo questa asincronia all'eccessiva confusione coreografica ed alla presenza di comparse sostitutive dei coristi, con movimenti confusi e sconclusionati che spesso rendevano caotica l'azione. Alessandro D'Agostini, detentore della bacchetta, è riuscito nonostante tutto a legare ed amalgamare questo marasma, tenendo ben salda la buca nel rapporto con i cantanti; ottimi i suoi colori della sinfonia, con tempi sempre giusti senza mai esasperare gli accenti, anzi riuscendo a cogliere alcune sfumature, delle quali, come si diceva all'inizio, siamo sempre avidi, che ci hanno fatto assaporare qualche passo dei singoli strumenti che in altre esecuzioni, anche di riferimento, risulta poco evidenziato confondendosi con gli altri; durante i recitativi, ci è venuta spesso in mente quella frase dei film western che si leggeva nei saloon: "non sparate sul pianista"; forse proprio per scongiurare questa intenzione che poteva trasformarsi in realtà in quanto l'accompagnamento dei recitativi è sempre stato eseguito con un volume non di rado con effetto disturbante. Concludiamo commentando l'ultima frase, per sottolineare che la bontà di quanto scritto da Verdi al Gatti Casazza, non ha trovato riscontro a quanto abbiamo trovato in sala; una platea piuttosto vuota ed un pubblico, piuttosto indisciplinato e rumoroso; si aprirebbe qui un discorso molto lungo, ma forse la cosa importante è far notare questo, confidando in azioni correttive e migliorative dello status quo.
Crediti fotografici: Michele Palazzi/Contrasto per l'Opera di Firenze Nella miniatura in alto: il regista Damiano Michieletto
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