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L'opera pių 'sofferta' di Richard Strauss miete un meritato successo nel Teatro Carlo Felice

Danae di rara opulenza

servizio di Simone Tomei

Pubblicato il 17 Aprile 2025

20250417_Ge_00_DieLiebeDerDanae_AngelaMeadeGENOVA - In un panorama operistico spesso dominato da titoli consolidati, emerge con prepotente originalità la produzione di Die Liebe der Danae, Op. 83 di Richard Strauss al Teatro Carlo Felice di Genova. Quest'opera, lungi dall'essere un mero reperto archeologico, si rivela un'esplorazione complessa e affascinante delle dicotomie umane, incastonata in una partitura di rara opulenza.
Die Liebe der Danae invita a una riflessione sul contesto storico della sua creazione. Composta durante gli anni bui della Seconda Guerra Mondiale, l'opera può essere interpretata come una fuga dalla realtà, un rifugio in un mondo mitico di bellezza e armonia. Tuttavia, sarebbe riduttivo considerarla solo un'evasione. Strauss, pur immergendosi nel mito, affronta temi universali come la ricerca della felicità e il conflitto tra desiderio e rinuncia. La rarità esecutiva dell'opera, dovuta in parte alle notevoli esigenze vocali e alla complessità della messa in scena, non fa che accrescerne il fascino, rendendo ogni rappresentazione un'occasione preziosa per riscoprire un tesoro nascosto del repertorio operistico del Novecento.
Richard Strauss concepisce "Danae" in un periodo storico di profonda crisi, segnato dal crepuscolo degli ideali bellici che gettava un'ombra cupa sul panorama culturale europeo; in questo contesto, l'opera si configura come una riflessione metatestuale sul potere salvifico dell'arte stessa. Il mito di Danae, fecondata dalla pioggia aurea di Zeus, diviene un topos attraverso cui il compositore indaga la natura ambivalente del desiderio, la caducità della potenza e la resilienza dello spirito umano di fronte alle avversità. L'impianto musicale, sontuoso e raffinato, si articola in un tessuto orchestrale denso di suggestioni timbriche, in cui l'oro del desiderio si contrappone dialetticamente alla cenere della disillusione.
La genesi dell'opera, segnata da una travagliata elaborazione del libretto, costituisce un elemento di indubbio fascino. L'originaria concezione di Hugo von Hofmannsthal, intrisa di una verve satirica memore di Luciano di Samosata, subisce una metamorfosi significativa attraverso l'intervento di Joseph Gregor e la supervisione occulta di Clemens Krauss. Questo processo compositivo stratificato conferisce all'opera una profondità semantica ulteriore, in cui la tensione tra l'elemento buffo e la sottostante tragicità esistenziale si risolve in un equilibrio instabile e fecondo. "Danae" emerge così come un'opera che rifugge le facili categorizzazioni di genere, oscillando tra la vis comica e la riflessione filosofica sul fluire inesorabile del tempo.

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L'orchestrazione straussiana si distingue per la sua straordinaria potenza espressiva. L'orchestra non si limita ad accompagnare le voci, ma diventa un vero e proprio protagonista drammatico, un'entità viva e pulsante che respira con i personaggi e amplifica le loro emozioni. Gli archi, con il loro fraseggio sinuoso e vibrante, evocano la fragilità emotiva dei personaggi, delineando le loro paure, le loro speranze e i loro conflitti interiori con una delicatezza e una precisione quasi palpabili. I legni, con le loro timbriche iridescenti, che spaziano dal flauto etereo al clarinetto malinconico, suggeriscono le seduzioni ingannevoli del desiderio, le promesse illusorie e le trappole nascoste dietro l'apparenza. Gli ottoni, con i loro squilli maestosi e crepuscolari, che risuonano come il tuono di un dio o il lamento di una potenza in declino, incarnano la potenza divina e la sua ineluttabile decadenza, la consapevolezza della propria mortalità e la nostalgia per un'eternità perduta. Il celebre interludio del Goldregen, con le sue cascate scintillanti di suoni, è un esempio lampante della capacità di Strauss di trasfigurare la materia sonora in pura emozione, in un'ebbrezza timbrica che trascende la semplice descrizione e si fa pura esperienza sensoriale, un'immersione in un mondo di bellezza abbagliante e fugace.
In questo contesto di ricchezza e complessità, merita una menzione particolare la direzione del M° Michael Zlabinger, musicista austriaco di indubbio talento. La sua interpretazione equilibrata, che dimostra una profonda conoscenza della partitura e una sensibilità raffinata per le sfumature dinamiche e timbriche, esalta ogni colore ed emozione della partitura, rivelando una profonda comprensione della complessità emotiva e musicale dell'opera e guidando l'orchestra con mano sicura e ispirata attraverso il labirinto delle passioni umane e delle vicissitudini divine. L'equilibrio tra palcoscenico e golfo mistico è stato eccellente, e la mano sicura del direttore non ha mai fatto mancare il suo appoggio e la sua figura di guida.
Impeccabile il coro, molto impegnato in quest’opera come sempre ben preparato dal M° Claudio Marino Moretti che ha saputo esaltare gli impeti straussiani. Un plauso di encomio va anche ai danzatori Daniele Bracciale, Luca Cappai, Simone Cristofori e Giuseppe Sanniu ed al Balletto Fondazione Formazione Danza e Spettacolo "For Dance" ETS, che si sono distinti per precisione, grazia ed eleganza nelle suggestive coreografie curate da Carmine De Amicis.
In questo contesto, il cast ha dato prova di grande impegno, con risultati nel complesso notevoli. Lo Jupiter di Scott Hendricks ha dominato la scena con una presenza magnetica che ha reso il suo Giove credibile, persino toccante nella sua umanità disillusa. La sua vocalità si è distinta per un’ottima proiezione in acuto, sebbene nella zona grave si siano percepite occasionali carenze in volume e rotondità. Nonostante ciò, il personaggio ha acquisito corpo grazie a una recitazione solida e a un fraseggio incisivo.
Di grande pregio è stata la prova di John Matthew Myers nei panni di Mida: il timbro soave e il fraseggio raffinato hanno restituito un personaggio vibrante, umanissimo, colto nel pieno del suo conflitto morale. Myers ha saputo equilibrare forza espressiva e delicatezza, offrendo una lettura intima e coerente del ruolo.

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Angela Meade, nel ruolo di Danae, ha confermato la sua statura vocale. L'intonazione impeccabile, la morbidezza del canto, le messa di voce scolpite con eleganza e l'omogeneità su tutta l'estensione testimoniano un controllo tecnico di altissimo livello. Tuttavia, a fronte di una vocalità pressoché ineccepibile, è mancata una piena immedesimazione scenica: il personaggio non è emerso con la profondità richiesta, e l'interpretazione, per quanto impeccabile sotto il profilo musicale, ha finito per assumere i tratti di un'esecuzione in forma di concerto, priva dell’afflato teatrale che il ruolo esige. Un'occasione parzialmente mancata per un’artista di tale levatura che avrebbe potuto completare il quadro con una più marcata espressività scenica.
Il Merkur di Timothy Oliver ha rappresentato un’autentica ventata di brio: spigliato, divertente, misurato nella caricatura, ha saputo unire precisione vocale e talento attoriale, risultando una delle presenze più godibili della serata.
Tuomas Katajala nel ruolo di Pollux ha colpito per l’emissione nitida e cristallina, unita a una dizione impeccabile, mentre Valentina Farcas, nei panni di Xanthe, ha offerto un’interpretazione elegante e controllata, con acuti ben centrati e un duetto del primo atto di grande equilibrio.
Eccellente anche il quartetto dei re – Albert Memeti, Eamonn Mulhall, Nicolas Legoux e John Paul Huckle – che ha dimostrato coesione e qualità vocale, così come di ottimo livello sono risultate le prove di Anna Graf (Semele), Agnieszka Adamczak (Europa), Hagar Sharvit (Alcmene) e Valentina Stadler (Leda) tutte scenicamente ben caratterizzate e vocalmente solide. Infine Eine Stimme era Valeria Saladino.
La produzione genovese si distingue per la lettura registica di Laurence Dale che innerva la vicenda mitologica di suggestioni metatestuali e riferimenti storico-culturali precisi. La presenza di Strauss stesso, ora spettatore partecipe, ora deus ex machina che guida i destini dei personaggi, conferisce all'allestimento un'ulteriore dimensione di complessità. In questa visione, il compositore non è una figura lontana, relegata al passato, ma è evocato in scena, presente come fantasma e coscienza: un mimo nei suoi abiti borghesi, seduto in un palco accanto alla moglie Pauline, poi in piedi accanto ai personaggi, quasi li dirigesse, o danzasse con loro una malinconica partitura interiore. Quel valzer, che ritorna sottopelle nella partitura come un respiro familiare, è il cuore segreto di tutta l’opera: la nostalgia di Richard Strauss per un mondo perduto, la sua fede nella bellezza come ultimo rifugio.
La scelta di ambientare l'azione nel 1944, anno cruciale segnato dall'attentato a Hitler e dalla chiusura dei teatri, aggiunge un livello di lettura metadrammatico che interroga il ruolo dell'arte in un contesto storico segnato dalla violenza e dalla barbarie: in questo modo, l'opera non è più solo una narrazione mitologica, ma diventa anche un documento storico, una testimonianza del potere dell'arte di resistere e di sopravvivere anche nei momenti più bui della storia umana.
Il terzo atto è un’epifania struggente: un filmato d’epoca mostra il vero Strauss alla direzione, poi altre immagini quotidiane, private ci conducono fino alla villa di Garmisch, rifugio alpestre e domestico del compositore che diventa tempio dell'ultima arte. È un colpo di teatro che commuove e dà senso all’intera visione, come se l’autore stesso fosse l’ultimo spettatore della sua opera. La celebre frase pronunciata da Strauss in occasione della prova generale, «... con la speranza di rivederci in un mondo migliore ...», risuona non solo come un auspicio personale, ma anche come un monito profetico e un'affermazione di fede nel potere rigeneratore della musica e nella sua capacità di offrire speranza e consolazione in tempi di crisi.

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Lo spettacolo, pur non esente da elementi di ambiguità interpretativa, si distingue per la sua indubbia qualità. La fusione sapiente di epoche stilistiche diverse, la ricercatezza dei costumi, l'uso suggestivo delle luci e l'efficace sfruttamento dello spazio scenico concorrono a creare un'esperienza visiva di grande impatto emotivo. Ogni dettaglio scenico, ogni scelta cromatica, ogni movimento degli attori è intriso di significato - talvolta chiaro, talaltra meno - e contribuisce a creare un'atmosfera sospesa tra sogno e realtà, tra mito e storia. La dramaturgie dell'opera, lungi dall'essere tradita da scelte registiche arbitrarie, viene valorizzata in tutta la sua complessità, evidenziando come la visione straussiana di un amore capace di trionfare sulla potenza e sulla ricchezza trovi una propria puntuale risonanza nel contesto storico e culturale in cui l'opera è stata concepita.
Questa rappresentazione, la prima italiana della versione originale con complessi artistici italiani (edizione utilizzata: Schott Music, Mainz), ha visto impegnati inoltre lo scenografo e costumista Gary McCann e John Bishop a curare le luci, contribuendo in modo significativo all'impatto visivo e all'atmosfera complessiva dello spettacolo.
Nonostante le avverse condizioni atmosferiche, il calore della musica ha pervaso il teatro, riscaldando cuori e animi. Al termine della rappresentazione, il pubblico ha tributato un'ovazione corale e sentita a tutti gli artisti, con un particolare tributo di plauso al direttore d'orchestra, a suggello di una serata indimenticabile.
(La recensione si riferisce alla recita di mercoledì 16 aprile 2025)

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Crediti fotografici: Ufficio stampa del Teatro Carlo Felice di Genova
Nella miniatura in alto: il soprano Angela Meade  (Danae)
Sotto, in sequenza: profili e panoramiche su
Die Liebe der Danae Op. 83
di Richard Strauss
In fondo: i saluti del cast e del direttore
Michael Zlabinger a fine recita






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