Pubblicato il 20 Ottobre 2025
Il capolavoro di Riccardo Zandonai riproposto nel Teatro Regio di Torino dove nacque
Francesca da Rimini tra forza e fragilitā servizio di Simone Tomei

20251020_To_00_FrancescaDaRimini_AndreaBattistoniTORINO -  C’è un destino che sembra non conoscere oblio: quello di Francesca da Rimini, eroina sospesa tra colpa e innocenza, tra desiderio e condanna, che continua a esercitare il suo fascino attraverso i secoli e i linguaggi. Quando il sipario del Teatro Regio di Torino si alza sull’opera di Riccardo Zandonai, aprendo la stagione lirica 2025/2026, non si celebra soltanto un ritorno alla grande lirica italiana del primo Novecento, ma si riattiva un mito che nasce da Dante, passa per d’Annunzio e approda a una modernità ancora inquieta. È una vicenda che si rinnova ogni volta che viene raccontata: specchio di una tensione eterna tra passione e legge, tra libertà e potere, tra anima e carne.
Francesca è, fin dal V canto dell’Inferno dantesco, la figura dell’amore che si fa perdizione e salvezza insieme, l’amore che al cor gentile ratto s’apprende e che, pur nel peccato, conserva la sua purezza tragica. Da quei pochi versi di Dante Alighieri si è sprigionata un’intera costellazione di opere e visioni che hanno reso Francesca un simbolo universale, un archetipo della donna prigioniera e ribelle al tempo stesso.
Quando Gabriele d’Annunzio nel 1901 scrisse la sua "Francesca da Rimini" per Eleonora Duse, diede al mito un corpo scenico e psicologico nuovo, intriso di sensualità decadente e di un linguaggio prezioso, musicale, quasi profetico.
Zandonai, poco più di un decennio dopo, tradusse quella prosa in una materia sonora che ne amplifica l’intensità e ne sfuma i contorni. La sua partitura nata proprio a Torino nel 1914, è tra le più raffinate del teatro musicale italiano: un intreccio di suggestioni veriste e simboliste, di melodie limpide e armonie wagneriane, di colori orchestrali che respirano l’atmosfera dell’Impressionismo francese. In Zandonai tutto vibra di contrasti: la violenza e la dolcezza, la sensualità e la morte, la parola che si spezza e il silenzio che parla.

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È nel non detto, nell’incontro muto tra Francesca e Paolo, che la musica tocca il suo apice: un “silenzio sonoro” in cui l’orchestra diventa voce dell’anima, sguardo, battito, respiro. Ogni nuova messinscena di quest’opera è chiamata a misurarsi con la sua doppia natura: la forza drammatica e la fragilità interiore, la sontuosità visiva e la sottigliezza psicologica. È un terreno insidioso e fertile per la regia contemporanea, che può scegliere se restituire la materia medievale del racconto o proiettarla in un altrove onirico e simbolico.
Francesca da Rimini è anche un ponte tra culture e linguaggi: dal teatro di parola alla scena musicale, dal dramma dannunziano al cinema muto, che ne accolse presto la suggestione visiva. Nel corso del Novecento la sua immagine riaffiora nella pittura e nel cinema che ne ha fatto emblema dell’amore impossibile e dell’eterna malinconia femminile.
Ma è nel teatro, e soprattutto nell’opera, che Francesca trova la sua voce più autentica: quella che unisce eros e destino, violenza e poesia. Quando la musica di Zandonai si dispiega, il tempo sembra sospendersi e l’antico dramma si fa attuale: la vicenda di una donna che paga con la vita il suo diritto di amare. Non è solo una storia medievale, ma una ferita moderna, una domanda che ci riguarda ancora: fino a che punto si può resistere al potere dell’amore? E quale colpa può mai avere chi ama davvero?
Il Teatro Regio di Torino, con questa nuova produzione, non si limita a riportare in scena un capolavoro, ma riaccende una delle pagine più potenti del nostro immaginario collettivo. In ogni nota di Zandonai, in ogni pausa, continua a vivere l’eco di quella voce dantesca che attraversa i secoli e non smette di commuovere: la voce di Francesca, la voce dell’amore che, se pur condannato, resta l’unico vero paradiso possibile.
Nella lettura registica di Andrea Bernard, Francesca da Rimini si libera dalle incrostazioni romantiche e dalle trappole di una visione passiva della protagonista, per assumere il volto di una donna lucida, consapevole e indomita. Bernard rovescia l’idea tradizionale di Francesca come vittima del destino o di una società patriarcale, trasformandola in figura di resistenza interiore: una creatura che sceglie e affronta la propria fine come atto di libertà, quasi una rivendicazione di sé.
La regia sposta l’azione nella seconda metà dell’Ottocento - sottolineati dai pregevoli costumi di Elena Beccaro -, un’epoca ambigua e doppia, rassicurante solo in apparenza, ma percorsa da un moralismo ipocrita e da un controllo sociale sottile e spietato. In questo contesto, colto più come suggestione estetica che come ricostruzione storica, prende corpo l’universo di Francesca: una stanza che è insieme rifugio e gabbia, sogno e ossessione.
L’ambiente, ideato da Alberto Beltrame, appare come uno spazio astratto, quasi mentale, dominato da un bianco lattiginoso che amplifica il senso di sospensione e irrealtà. Pareti mobili, aperture improvvise e passaggi nascosti agiscono come proiezioni dello spirito della protagonista, frammenti del suo inconscio che si aprono e si richiudono su di lei. Non è un luogo realistico ma il paesaggio interiore di Francesca: il teatro della sua memoria e delle sue illusioni.

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Lì, grazie anche alle suggestive luci di Marco Alba, si sovrappongono presente e ricordo, sogno e condanna: la stanza dell’infanzia, il letto, la casa di bambole diventano echi di un tempo perduto, immagini che si dissolvono man mano che la realtà impone il suo volto crudele: quello di un matrimonio imposto, di un destino tracciato, di un amore solo immaginato. L’intera narrazione assume così un carattere atemporale, dove la riconoscibilità storica lascia spazio a un’astrazione poetica che accentua il senso di misticismo e di fatalità del dramma. In questa sospensione Francesca sembra muoversi come un’anima in sogno, circondata da presenze maschili deformate dal potere e dalla violenza, figure più archetipiche che reali.
L’unico spiraglio di verità è Paolo, ma anche la sua apparizione, resa con un suggestivo squarcio luminoso sul fondo dove un prato fiorito irrompe nella stanza chiusa, ha il carattere effimero dell’illusione: un momento di grazia che si dissolve nel nulla. La scena, che nel terzo atto si ravviva nuovamente del colore del prato, evoca la potenza del desiderio e insieme la sua impossibilità. È in questa dialettica tra sogno e realtà, luce e chiusura, che Bernard costruisce la propria drammaturgia visiva: una partitura scenica che amplifica la musica di Zandonai e la traduce in immagini essenziali, cariche di tensione simbolica: il risultato è un racconto visionario, denso di poesia e rimandi, dove la Francesca da Rimini di Zandonai si fa specchio di un’anima universale, contemporanea, capace di parlare al nostro tempo con la voce limpida di chi sceglie la libertà anche nella tragedia.
La Francesca di Barno Ismatullaeva, soprano uzbeko, si distingue per temperamento e intensità notevoli. La sua interpretazione accompagna lo spettatore nell’anima del personaggio, partecipe e sofferta, costruita su un fraseggio teatrale consapevole e su un canto che coniuga emozione e lucidità. L’interprete raggiunge un raro equilibrio tra forza e fragilità, tra la determinazione della donna che sceglie il proprio destino e la dolente dolcezza dell’amante perduta. La voce, ricca di corpo e colore, si rivela estremamente duttile: sa addolcirsi in filati e mezzevoci di delicata intensità, per poi espandersi in impennate drammatiche di grande potenza espressiva, scolpendo nell’aria il dolore di un amore impossibile e necessario. Anche quando l’acuto si allunga in un crescendo intenso, rimane intatta la solidità di una proiezione sempre salda e controllata, trasformando il pathos in pura espressione musicale.
Al suo fianco, il tenore Marcelo Puente dà vita a Paolo il Bello con voce piena e ardente, sorretta da gusto nobile, fraseggio misurato e musicalità elegante. Il suo Paolo non è un mero eroe romantico, ma un amante poetico e appassionato, un idealista che tenta di sottrarre Francesca alla menzogna del mondo, avvolgendola in una dimensione sospesa dove sentimento e sogno coincidono. Il suo canto, caldo e penetrante, si intreccia con quello della protagonista in una spirale di desiderio e perdizione.
George Gagnidze, nei panni di Gianciotto, restituisce con efficacia la complessità di un personaggio sospeso tra brutalità e disperazione. La sua voce baritonale, potente e dal colore brunito, talvolta mostra alcuni suoni meno definiti, che perdono parte della loro incisività, ma riesce comunque a trasmettere la tensione interna del ruolo. La violenza trattenuta della sua interpretazione esplode con maggiore forza solo nel gesto finale, quando l’ira si mescola alla rassegnazione, restituendo un climax drammatico di grande impatto.
Di grande efficacia è anche il Malatestino di Matteo Mezzaro, figura al limite tra realtà e incubo, resa con precisione e voce di bel timbro: un’inquietudine sottile e insinuante che evita la caricatura, ma esalta l’aspetto più malefico del personaggio.
Devid Cecconi offre un Ostasio vivido e scolpito, cesellato in ogni gesto e inflessione vocale, mentre Valentina Boi dà alla Samaritana un tono dolce e luminoso, eco di un’innocenza perduta.
Suggestiva e di grande impatto scenico è la prova delle quattro dame: Valentina Mastrangelo (Biancofiore), Albina Tonkikh (Garsenda), Martina Myskohlid (Altichiara) e Sofia Koberidze (Donella). Tutte hanno offerto interpretazioni eccellenti, equilibrate e affiatate, capaci di tessere un intreccio delicato e suggestivo intorno a Francesca, incarnando al contempo innocenza, presagio e sostegno umano, morale e psicologico alla protagonista.
Spicca, per profondità e calore timbrico, la Smaragdi di Silvia Beltrami, mezzosoprano dal timbro pastoso e vellutato, che dona al personaggio una presenza quasi sacrale, unica mediatrice tra la dimensione terrena e quella della memoria.
Completano il quadro, con precisione e coesione, Enzo Peroni, Janusz Nosek, Daniel Umbelino, Eduardo Martínez e Bekir Serbest, rispettivamente nei ruoli di Ser Toldo, Il giullare, Il balestriere, Il torrigiano e Un prigioniero a conferma di un ensemble compatto e curato nei dettagli.

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Sul podio, il M° Andrea Battistoni affronta per la prima volta Francesca da Rimini con la curiosità e l’audacia di chi ama addentrarsi nei meandri del suono per scoprirne la linfa segreta. La sua lettura non si limita a illustrare la partitura, ma la rovescia come un guanto, ne esplora le pieghe nascoste e la reinventa dall’interno, esaltandone la duplice natura: sensualità e tormento, fragranza e dolore. Egli riconosce nella partitura un’opera visionaria, sospesa tra raffinatezza orchestrale e dramma interiore, e a questa sospensione dà voce con una bacchetta duttile, animata da un gesto ampio e immaginifico, capace di accendere le tinte più audaci della tavolozza strumentale e di restituire l’incanto di un linguaggio insieme italiano e cosmopolita.
La sua direzione possiede un respiro sinfonico e cinematografico, denso di trasparenze e contrasti, come se il suono stesso si facesse pittura. La densità orchestrale non opprime mai le voci, ma le avvolge in una trama luminosa, fluida, che lascia emergere ogni sfumatura e vibrazione emotiva. È una lettura che profuma di primavera, come quel prato fiorito che Bernard fa apparire in scena: un tappeto di colori da ammirare nei dettagli ma che colpisce per la bellezza d’insieme. Sa cogliere le risonanze europee della partitura, da Wagner a Strauss, da Ravel a Debussy, senza mai smarrire la radice melodica italiana, quella vena lirica che resta il cuore pulsante di Zandonai. Ne nasce una visione orchestrale avvolgente, raffinata, mai compiaciuta, in cui ogni dettaglio sonoro si fa parte di un grande affresco emotivo: un’opera d’arte che vive e respira davanti a noi.
Ottimo anche il lavoro del coro, preparato con rigore e sensibilità dal M° Ulisse Trabacchin: la compagine del Regio risponde con precisione e compattezza, offrendo una prova di grande solidità tecnica e forte impatto teatrale. Le sezioni maschili e femminili dialogano con perfetto equilibrio, capaci di alternare la forza drammatica dei momenti corali più intensi alla delicatezza degli interventi fuori scena, sempre curati nel fraseggio e nell’intonazione. È un coro partecipe della narrazione, mai semplice sfondo ma presenza viva, che contribuisce a quella tessitura d’insieme in cui canto, gesto, suono e spazio si fondono in una stessa, incandescente visione.
Eccellente anche l’apporto dei ballerini che hanno festeggiato la primavera con le fanciulle sulle coreografie di Marta Negrini.
Pubblico numeroso e applausi per tutti.
(La recensione si riferisce alla recita del 19 ottobre 2025)

Crediti fotografici: Gaido Ratti per il Teatro Regio di Torino
Nella miniatura in alto: il direttore Andrea Battistoni
Sotto, in sequenza: Barno Ismatullaeva (Francesca);  Marcelo Puente (Paolo il Bello)
Al centro, in sequenza: Matteo Mezzaro (Malatestino) e George Gagnidze (Gianciotto);  Barno Ismatullaeva con
Valentina Mastrangelo (Biancofiore), Albina Tonkikh (Garsenda), Martina Myskohlid (Altichiara) e Sofia Koberidze (Donella)

In fondo, in sequenza: ancora Barno Ismatullaeva; e la scena finale dell'opera





Pubblicato il 14 Ottobre 2025
La regia anno 2010 di Michieletto ripresa a Genova 15 anni dopo fu una provocazione ora no
Don Giovanni claustrofobico servizio di Simone Tomei

20251014_Ge_00_DonGiovanni_ConstantinTrinksGENOVA - C’è qualcosa di emblematico nel vedere il Don Giovanni di W.A. Mozart intrappolato in un labirinto di pareti rotanti; forse è il destino stesso di certe regie nate come provocazione e finite per diventare autocitazione. Al Teatro Carlo Felice di Genova, l’allestimento firmato da Damiano Michieletto (produzione della Fenice di Venezia datata 2010, con scene di Paolo Fantin e costumi di Carla Teti) qui ripresa da Elisabetta Acella approda come inaugurazione di stagione e si presenta, più che come una lettura dell’opera mozartiana, come il suo meticoloso smontaggio. Tutto ruota, letteralmente, ma senza mai procedere davvero: un moto perpetuo della forma che lascia a terra la sostanza.
Il risultato è un Don Giovanni claustrofobico, chiuso in un labirinto di stanze identiche, dove i personaggi sembrano rincorrersi senza sapere perché, e il dramma mozartiano - con il suo geniale equilibrio di eros e colpa, ironia e tragedia - si perde in un’estetica di grigio cerebrale. Un’idea che al tempo forse poteva apparire audace; oggi suona come un esperimento esausto, privo di tensione teatrale e di respiro vitale. E se il celebre libertino è “una macchina lanciata verso l’autodistruzione”, come diceva lo stesso Michieletto, qui quella macchina sembra aver già terminato la corsa: si aggira in tondo, senza freni e senza meta, lasciando dietro di sé non rovine romantiche, ma un insistente senso di stanchezza.
Le scene di Paolo Fantin, con i loro pannelli rotanti e le stanze tutte uguali, diventano l’immagine più eloquente di questo spaesamento. Un Ikea metafisico, dove i personaggi si muovono come clienti smarriti dopo l’orario di chiusura. Nessuna finestra, nessun orizzonte, nessun respiro: solo corridoi che si inseguono in un moto circolare, fino a trasformare la vertigine mozartiana in monotonia. L’idea di una “giostra” scenica simbolo della corsa interiore di Don Giovanni verso il baratro, si svuota presto di senso, diventando un meccanismo che gira a vuoto.
A questo universo visivo, già di per sé asfittico, si aggiunge la neutralità cromatica dei costumi di Carla Teti, che annulla ogni gerarchia sociale e cancella la tensione dinamica tra servo e padrone, tra eros e colpa, che costituisce l’anima stessa dell’opera. Tutti, dal libertino al contadino, sembrano provenire dallo stesso reparto outlet della tragedia esistenziale: un mondo livido, dove la passione si è spenta e resta solo il rumore di fondo del disincanto. In questa “fiera del grigio”, il colore scompare insieme al senso del contrasto, e il teatro perde una delle sue più potenti armi: la differenza.
Il paradosso più grande è che Michieletto, a parole, aveva colto l’essenza del mito. Parlava di un Don Giovanni incapace di fermarsi, “una macchina lanciata a folle velocità verso l'autodistruzione”.

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Eppure, la sua messinscena tradisce questa tensione: più che una corsa folle verso l’abisso, ciò che vediamo è un girare a vuoto in un parcheggio desolato, dove il “fascino malato” di cui teorizzava il regista si perde nella ripetitività del gesto scenico. Ciò che sulla carta suonava come un’analisi acuta della vertigine libertina, in scena si traduce in immobilità: non una corsa, ma un moto bloccato, una reiterazione.
Se il Don Giovanni di Mozart è un corpo che brucia di desiderio e si consuma nell’eccesso, quello di Michieletto è un automa che vaga senza scopo, prigioniero di un simbolismo che non esplode mai in vera azione. Il fascino della rovina lascia così il posto all’inerzia di un esperimento mentale, dove l’idea prende il sopravvento sull’emozione. La regia, invece di affondare nel magma delle passioni, si chiude in una gabbia fin troppo concettuale. Laddove Mozart intreccia il comico e il tragico, il sacro e il profano, qui tutto si riduce a una linea piatta, a un tono unico di cupa introspezione. I personaggi non dialogano davvero: si sfiorano, si parlano addosso, talvolta si ignorano. Il gioco teatrale si smarrisce in trovate che pretendono di sorprendere ma finiscono per confondere. Frasi spostate, versi rivolti a chi non è più in scena, un libretto manipolato con troppa disinvoltura: Zerlina che canta “Vedrai carino” a Don Giovanni invece che a Masetto, Elvira che ritrova le proprie lettere nel catalogo di Leporello, e la cena finale, privata della statua del Commendatore, trasformata in un rituale erotico di dubbio gusto.

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Il problema non è la provocazione in sé, ma la sua mancanza di direzione. Se il genio di Mozart sapeva creare un perfetto equilibrio di tensioni morali e teatrali, in questo allestimento domina un disordine sterile, un accumulo di gesti privi di direzione. L’eros si riduce a un sesso da bordello, ripetitivo e svuotato, la violenza smarrisce la forza tragica e la comicità si dissolve. Tutto procede in modo meccanico e prevedibile, e ciò che avrebbe dovuto suscitare scandalo scivola nel puro manierismo.
Nonostante la regia di Michieletto lasci la sensazione di un ingranaggio che si ripete su sé stesso, il versante musicale e vocale ha offerto, nelle due serate dell’11 e del 12 ottobre, un quadro più variegato e a tratti decisamente più vivo. Il doppio cast ha infatti consentito di misurare sfumature e personalità diverse, rivelando quanto l’opera di Mozart possa cambiare pelle a seconda di chi la abita.
Ecco le impressioni sui due cast.

Recita dell’11 ottobre 2025
In questa serata, il Don Giovanni di Gurgen Baveyan si è distinto per un’interpretazione misurata, mai sopra le righe, fondata su una vocalità controllata e calibrata. La sua voce, non particolarmente potente, è stata tuttavia ben gestita e sempre proiettata con cura, a vantaggio di una resa scenica convincente, più riflessiva che impetuosa, ma coerente nella costruzione di un libertino sottile, quasi introspettivo.
A fronte di questa eleganza un po’ trattenuta, la Donna Anna di Irina Dubrovskaya ha convinto meno: la voce, di timbro piuttosto anodino e limitata duttilità, non ha restituito appieno la complessità del personaggio. Nelle agilità è apparsa in difficoltà e il suo canto ha mancato di quella tensione drammatica che dovrebbe sorreggere la figura di Anna tra dolore e sete di giustizia.
Ben più interessante è stato invece il Don Ottavio di David Ferri Durà, autentica rivelazione della serata: voce ben timbrata, fraseggio elegante, e una musicalità che ha reso entrambe le arie con tocco morbido e grande padronanza tecnica, fondendo lirismo e dignità cavalleresca.
Jennifer Holloway, nei panni di Donna Elvira, ha offerto una vocalità importante e ben impostata, tecnicamente sicura, sempre corretta e intonata, ma ancorata a un registro interpretativo piuttosto uniforme, tutto giocato su un forte-fortissimo continuo che finiva col limitare la varietà espressiva. L’Elvira ne è uscita nobile ma poco sfaccettata, priva di quelle venature di tenerezza e follia che rendono il personaggio così affascinante.
Meno a fuoco Bruno Taddia come Leporello: un’interpretazione che ha ceduto spesso alla caricatura, con un eccesso di gestualità e un fraseggio sovraccarico, non privo di una fastidiosa balbuzie che nulla aggiungeva alla comicità del servo. Le note gravi, inoltre, risultavano poco sonore, e la resa complessiva finiva col tradire la finezza mozartiana in favore di un registro da farsa.

Recita del 12 ottobre 2025
La sera dopo il testimone è passato a Simone Alberghini, che ha delineato un Don Giovanni di ben altra pasta: autentico phisique du rôle, elegante e spavaldo senza mai scadere nel manierismo. La voce, ampia e ben proiettata, ha mostrato sicurezza e padronanza in ogni registro, con inflessioni sapientemente cesellate e una costante attenzione al fraseggio e alla parola scenica. È stato un libertino raffinato e consapevole, capace di coniugare la sensualità con l’ironia, la forza con la misura.
Al suo fianco, Desirée Rancatore ha offerto una Donna Anna in grande forma: la parte vocale è stata affrontata con controllo e freschezza, sostenuta da un suono nitido e cristallino che ha dato risalto tanto alle agilità quanto alle sezioni più drammatiche. Interessante anche la sua caratterizzazione scenica, che ha saputo unire la fragilità iniziale a un’energia più consapevole e intensa nel finale.

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Meno convincente invece Ian Koziara nel ruolo di Don Ottavio: voce potente ma non sempre a fuoco, con un’emissione forzata e l’uso insistito di un falsetto un po’ troppo costruito che appiattiva la linea melodica, tradendo una certa inadeguatezza rispetto alla purezza richiesta dal ruolo.
Altra prova tra le più riuscite della serata, quella di Monica Zanettin come Donna Elvira: la sua è stata un’interpretazione eccellente per partecipazione emotiva e padronanza vocale. La Zanettin ha saputo fondere intensità e misura, fraseggio curato e grande istinto scenico, offrendo un ritratto istrionico ma coerente, capace di oscillare tra ira e compassione con disarmante naturalezza.
Giulio Mastrototaro, nel ruolo di Leporello, si è distinto per eleganza e misura. Lungi dal cercare l’effetto facile, ha tratteggiato un servo ironico ma mai volgare o macchiettistico, dal timbro morbido e omogeneo, e dal fraseggio attento, ricco di sfumature. Un’interpretazione raffinata, che ha restituito tutta la complessità del personaggio, sempre in bilico tra complicità e disincanto.

Interpreti di entrambe le recite
Comune ad entrambe le serate, Mattia Denti ha dato vita a un Commendatore di straordinario impatto: voce possente, duttile e perfettamente proiettata, con dizione chiara e parola sempre intelligibile. La sua presenza scenica ha conferito al personaggio un’autorevolezza magnetica e l’intervento finale, dominato da un suono pieno e penetrante, ha coronato entrambe le recite con una potenza drammatica rara.
Anche Alex Martini nel ruolo di Masetto, ha mostrato una vocalità nitida e ben impostata, curando con precisione parola scenica e intonazione al fine di costruire un personaggio credibile, genuino e incisivo nella sua semplicità.
Infine, Chiara Maria Fiorani come Zerlina ha convinto per freschezza e naturalezza: voce argentina, fraseggio agile, musicalità spontanea e grazia scenica, che hanno restituito alla giovane sposina una presenza vivace e autentica, capace di coniugare malizia e dolcezza con disinvoltura.

Direttore, Orchestra e Coro
La guida musicale del M° Constantin Trinks ha firmato una concertazione lucida e densamente pensata, in cui la cura del dettaglio è riuscita a prevalere sulla ricerca dell’effetto. Fin dalle prime battute dell’ouverture si è percepita la volontà di conferire all’opera una tinta drammatica più marcata, quasi a voler riequilibrare il peso del “dramma giocoso” verso la sua componente tragica e morale.
Trinks ha costruito un disegno sonoro in cui il senso del teatro e quello della misura si fondono con grande consapevolezza: tempi ampi, agogiche ben controllate e un’attenzione costante alla relazione tra buca e palcoscenico.
Particolarmente apprezzabile la sua scelta di porre in risalto i momenti in cui le voci si intrecciano in canone o in contrappunto, restituendo alla partitura mozartiana quella trasparenza architettonica che le è propria, ma anche la delicatezza del piano e del pianissimo, qui trattati con un respiro cameristico di grande raffinatezza. La sua lettura non è stata mai puramente “decorativa”, bensì tesa a svelare la sostanza drammatica di Don Giovanni: un affresco di passioni e colpe, luci e ombre, in cui l’orchestra non accompagna, ma dialoga, partecipa, commenta e anticipa.
Trinks sembra privilegiare le pagine scritte in tonalità minore, restituendo loro un senso di ineluttabilità che inchioda la vicenda alla sua dimensione tragica: la leggerezza del gioco mozartiano diventa così veicolo di un presagio di rovina.

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L’Orchestra del Teatro Carlo Felice ha risposto con compattezza e suono levigato, mettendo in luce tanto la nitidezza dei legni quanto la pastosità degli archi, ben bilanciati e sempre duttili nel seguire i moti del gesto direttoriale. L’equilibrio dinamico è rimasto costante anche nelle sezioni più animate, e la buca ha saputo respirare insieme alle voci, mai coprendole, anzi valorizzandole con un tessuto orchestrale denso ma trasparente.
Il Coro, preparato dal M° Claudio Marino Moretti, ha affrontato la prova con grande solidità, distinguendosi per precisione, coesione e qualità timbrica. Efficace tanto nella resa scenica dell’opera completa quanto nelle sezioni fuori campo del finale affidate alle sole voci maschili, ha mostrato una notevole compattezza. Nel celebre episodio delle “furie” la fusione delle voci e l’equilibrio delle sezioni hanno generato una tensione di intensità quasi sovrannaturale.
Il pubblico non troppo numeroso in entrambe le recite ha comunque gradito elargendo applausi sentiti per tutti.
(La recensione si riferisce alle recite dell’11 e 12 ottobre 2025)

Crediti fotografici: Marcello Orselli per il Teatro Carlo Felice di Genova
Nella miniatura in alto: il direttore Constantin Trinks
Al centro, in sequenza: Bruno Taddia (Leporello) e Gurgen Baveyan (Don Giovanni); Mattia Denti (il Commendatore); Irina Dubrovskaya (Donna Anna); Chiara Maria Fiorani (Zerlina) e Alex Martini (Masetto); David Ferri Durà (Don Ottavio); Jennifer Holloway (Donna Elvira) con Bruno Taddia; panoramica su Alex Martini, Gurgen Baveyan e Chiara Maria Fiorani
Sotto, in sequenza: Ian Koziara (Don Ottavio) con Desirée Rancatore (Donna Anna); Simone Alberghini (Don Giovanni) con Giulio Mastrototaro (Leporello)
In fondo: panoramica con Giulio Mastrototaro, Simone Alberghini, Monica Zanettin (Donna Elvira) e Desirée Rancatore





Pubblicato il 26 Maggio 2025
La regia di Emilio Sagi ripresa da Nuria Castejón trionfa ancora al Teatro Carlo Felice di Genova
Carmen delle parole e delle note servizio di Simone Tomei

20250526_Ge_00_Carmen_AnnalisaStroppaGENOVA – Con Carmen di Georges Bizet, l’Opera Carlo Felice di Genova ha proseguito la sua Stagione Lirica 2024-2025 mandando in scena l’ottavo titolo in cartellone. Opéra-comique in quattro atti, su libretto di Henri Meilhac e Ludovic Halévy tratto dalla novella di Prosper Mérimée, Carmen è tra i titoli più celebri e popolari dell’intero repertorio lirico, tanto da rischiare, a volte, di essere data per scontata.
Eppure, dietro la sua apparente familiarità, si cela un’opera complessa, innovativa e tutt’altro che "di routine", che ha saputo travolgere la tradizione dell’Opéra-Comique francese per spingersi verso un nuovo teatro musicale, impregnato di passione, realismo e un taglio psicologico acuto e modernissimo.
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Composta tra il 1874 e il 1875 e inizialmente accolta con tiepidezza, Carmen fu oggetto di continui ripensamenti da parte del suo autore che arrivò a sostituire le sezioni parlate tipiche del genere con recitativi, in vista della rappresentazione viennese del 1877, versione oggi più comunemente eseguita. Il successo planetario giunse proprio da Vienna e da allora l’opera non ha mai smesso di affascinare interpreti, pubblico e studiosi. Dietro la vicenda della zingara seduttrice, donna libera e insubordinata, si muove una partitura raffinata, gravida di tensioni armoniche, orchestrazioni inventive, temi memorabili e un senso drammatico sempre incalzante. Il linguaggio di Bizet, spesso considerato “disturbante” per la sua rude franchezza, si avvicina in più punti alle innovazioni di Verdi, al cromatismo wagneriano e persino ai fermenti del futuro verismo.
Opera-problema, come è stata definita, Carmen vive di contrasti: tra tradizione e rottura, seduzione e morte, libertà e destino. A renderla tanto attuale quanto ardua da interpretare è proprio la sua ambiguità. Per questo motivo ogni nuovo allestimento rappresenta una sfida, tanto per la regia quanto per la concertazione e l’impostazione vocale.
La regia firmata da Emilio Sagi - qui ripresa con coerenza e sensibilità da Nuria Castejón - si fonda su un'idea chiara ed efficace: restituire alla protagonista la sua dimensione più autentica, quella di una donna che vive e muore per la propria libertà. “Libera è nata e libera morrà!”, come sottolinea lo stesso Sagi, non è solo una battuta chiave del libretto ma il vero centro etico ed estetico dell’opera.

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A un primo sguardo l’impianto registico può apparire semplice, perfino convenzionale, con un allestimento che si muove nel solco della tradizione. Tuttavia è proprio in questa apparente essenzialità che si cela l’aspetto più innovativo della regia: l’estrema attenzione ai gesti, agli sguardi, alle dinamiche relazionali tra i personaggi, sempre aderenti al dettato testuale e alla forza evocativa della musica. Ogni scena sembra nascere organicamente dalle parole e dalle note, in un intreccio serrato tra recitazione e canto che conferisce autenticità e spessore ai protagonisti. L'epilogo ne è l'esempio più emblematico: Don José, lungi dall’essere il classico assassino accecato dalla gelosia, appare come un uomo svuotato, incapace perfino di compiere il gesto estremo, mentre Carmen, ferma e fiera, quasi si consegna alla morte pur di non rinunciare alla propria libertà.
È un finale di grande potenza simbolica che capovolge l’impostazione melodrammatica tradizionale, facendo emergere un'interpretazione lucida e moderna del conflitto fra libertà e possesso.
Questa visione prende forma attraverso un allestimento scenico nitido e funzionale firmato da Daniel Bianco, in cui l’ambientazione andalusa non è un semplice sfondo decorativo ma un vero elemento drammaturgico. Le architetture sobrie, i colori caldi della terra di Spagna e gli spazi mobili evocano una Siviglia verosimile e viva, che conserva la purezza e la teatralità del folklore senza mai cedere al pittoresco oleografico. I costumi di Renata Schussheim contribuiscono a questo equilibrio: vivaci e curati nel dettaglio, vestono i personaggi senza tempo, mescolando suggestioni tradizionali e tocchi moderni, rendendo riconoscibili i ruoli (militari, contrabbandieri, toreri) e al contempo esaltando le caratteristiche individuali, soprattutto quelle della protagonista che sfoggia abiti che ne sottolineano la sensualità e l’alterità, senza mai ridurla a una caricatura di se stessa.

20250526_Ge_03_Carmen_AnnalisaStroppa 20250526_Ge_04_Carmen_GiulianaGianfaldoniFrancescoMeli
20250526_Ge_05_Carmen_LucaTittoto 20250526_Ge_06_Carmen_FrancescoMeliArmandoGabbaSaverioFiore

Fondamentale in questa lettura visiva è anche il ruolo della danza. Le coreografie di Nuria Castejón, spesso integrate all’azione drammatica e non relegate a intermezzo decorativo, rafforzano il legame fra musica e movimento, restituendo l’energia pulsante della cultura andalusa e il clima “festante” che contrasta in modo tagliente con la tragedia incombente. La Plaza de Toros finale diventa così lo spazio simbolico in cui si consuma il duello fatale fra Carmen e Don José: uno scontro tra mondi inconciliabili, tra un’idea assoluta di libertà e una visione possessiva dell’amore. Completano il disegno visivo le luci di Eduardo Bravo, pensate per scolpire lo spazio scenico e accompagnare con efficacia la tensione drammatica.
Sul versante musicale, il M° Donato Renzetti si è confermato ancora una volta un musicista di grande esperienza e sensibilità, capace di guidare l’Orchestra del Teatro Carlo Felice con un gesto al tempo stesso enfatico e carismatico. La sua lettura ha esaltato ogni dettaglio della complessa partitura bizetiana, mettendo in luce l’incredibile varietà di registri emotivi e timbrici che la attraversano. Ha mostrato profonda comprensione dell’evoluzione interna alla scrittura di Bizet, capace di trasformare l’opéra-comique in qualcosa di radicalmente nuovo, denso di colore e dramma. La sua direzione ha sotteso con intelligenza l’arco narrativo dell’opera, costruendo tensioni e distensioni con mano sicura e conferendo respiro teatrale anche ai momenti più lirici. L’orchestra ha risposto con duttilità e precisione, restituendo con cura l’alternanza tra sonorità sgargianti e brillanti - come nella sinfonia, nell’ingresso dei toreri o nelle danze gitane - e i passaggi più sobri, introspettivi, dove emerge la tragedia umana.
Il Coro del Teatro Carlo Felice, guidato con precisione e sensibilità dal M° Claudio Marino Moretti, si è distinto per grande musicalità, compattezza timbrica e un impatto scenico coinvolgente, perfettamente in linea con l’intensità drammatica della partitura. La capacità di passare con disinvoltura dai momenti più solenni a quelli più vivaci, mantenendo sempre chiarezza nell’articolazione e coerenza espressiva, ha dato ulteriore profondità all’insieme. Non meno significativa la prova delle voci bianche, preparate dal M° Gino Tanasini, che ha saputo farsi apprezzare per precisione, freschezza e naturalezza interpretativa, regalando momenti gioiosi e contribuendo a costruire un suggestivo contrasto timbrico con il coro degli adulti.

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Ma adesso veniamo ai due cast seguiti per necessità di giudizio critico:

Carmen - Recita del 23 maggio 2025
La protagonista Annalisa Stroppa ha delineato una Carmen corretta ma poco incisiva, penalizzata da un’emissione che raramente si espande in sala e da una presenza scenica che fatica a restituire appieno la carica sensuale e la complessità psicologica della sigaraia sivigliana. Pur mostrando una lodevole precisione musicale e un’intonazione sempre salda, la sua interpretazione rimane piuttosto evanescente, priva di quel magnetismo vocale e scenico che dovrebbe caratterizzare uno dei ruoli più iconici del repertorio francese.
Francesco Meli
ha interpretato un Don José appassionato e tormentato, mettendo a frutto il suo timbro naturalmente suadente e un fraseggio elegante. Tuttavia l'uso frequente di mezzevoci e falsetti ha teso a snaturare l'impeto drammatico del personaggio, rendendolo meno credibile sul piano teatrale. Gli acuti sono risultati talvolta forzati e non sempre fermi, segno di una certa fatica nei passaggi di maggior tensione.
Luca Tittoto
, nei panni di Escamillo, ha affrontato un ruolo ai limiti della sua vocalità: la sua voce di basso, nobile e ben armonizzata, mostra qualche segno di tensione nella zona acuta, gestita comunque con intelligenza e mestiere. Di contro la zona grave è salda, sonora e perfettamente timbrata, offrendo un ritratto credibile del celebre torero, anche sul piano scenico.
Giuliana Gianfaldoni
, annunciata indisposta nel ruolo di Micaëla, merita una sospensione del giudizio, come correttezza impone in queste circostanze.
Ottime le prove dei personaggi di fianco: Vittoriana De Amicis (Frasquita) e Alessandra Della Croce (Mercédès) si sono distinte per precisione ritmica, intonazione impeccabile e notevole affiatamento nei momenti d’assieme, offrendo una lettura vivace e musicalmente centrata dei loro ruoli.
A queste si sono ben integrati Armando Gabba (Le Dancaïre) e Saverio Fiore (Le Remendado), entrambi efficaci sia sul piano vocale che scenico, contribuendo a una resa d’insieme compatta e teatralmente coesa.
Luca Dall’Amico
, nel ruolo di Zuniga, ha messo in mostra una voce autorevole, ben proiettata e timbricamente omogenea, sempre centrato e sicuro nell’intonazione. Chiude il cast un ottimo Paolo Ingrasciotta (Moralès), che ha impreziosito un ruolo secondario con dizione nitida, timbro curato ed eleganza interpretativa.

20250526_Ge_12_Carmen_CaterinaPivaCarmen - Recita del 24 maggio 2025
Caterina Piva si è distinta come una sopraffina artista che ha conquistato il pubblico con una Carmen intensa e vibrante. La sua vocalità brunita, dal timbro seducente e malizioso, si è unita a una presenza scenica matura e magnetica. La voce non ha faticato ad oltrepassare la buca orchestrale, grazie a una eccellente proiezione ed una dizione molto curata e attenta. La sua interpretazione ha saputo coniugare perfettamente sensualità, forza e vulnerabilità, conferendo al personaggio una dimensione autentica e profondamente umana. La capacità di modulare il fraseggio di questa interprete, con sensibilità e incisività, ha reso memorabili i momenti chiave, dalla celebre Habanera fino all’ultimo, drammatico atto.
Il tenore Amadi Lagha ha incarnato un Don José di grande spessore, riuscendo a trasmettere la trasformazione tormentata del personaggio con intensità e verità. La sua vocalità calda e potente si è unita a un fraseggio raffinato, che ha saputo mantenere un perfetto equilibrio tra passione e fragilità. Particolarmente toccante è stata la sua interpretazione dell'aria La fleur que tu m'avais jetée, eseguita con una combinazione di possenza vocale e dolcezza espressiva, che ha saputo rendere palpabile la complessità emotiva propria del personaggio. La sua performance ha conferito all’opera una tensione drammatica palpabile, sostenuta da un controllo impeccabile della linea vocale e da un’ottima dizione.
Abramo Rosalen è un Escamillo sicuro e carismatico, con una presenza scenica autorevole e un timbro vigoroso e brillante. Per voci imponenti di basso come la sua il ruolo è al limite, ma la bravura sta proprio nell'affrontare le note più impervie in maniera intelligente. La sua interpretazione ha dato forza e fascino al ruolo del torero, soprattutto nei momenti più solenni come la celebre aria Votre toast, eseguita con precisione e vigore.

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Infine Angela Nisi ha portato una Micaëla delicata e sentita. La sua interpretazione è riuscita a infondere al personaggio un’innocenza e una dolcezza autentiche e commoventi, particolarmente evidenti nell'esecuzione dell'aria Je dis que rien ne m’épouvante dove ha saputo bilanciare una passione contenuta con una tenerezza struggente, dipingendo il ritratto di una donna forte nella sua vulnerabilità. La linea vocale, sempre chiara e ben proiettata, ha sostenuto un’espressività sobria ma profondamente efficace, rendendo la sua presenza un prezioso contrappeso emotivo all'interno della complessa economia drammatica dell’opera.
Due recite, due sold out e pubblico - formato anche da tanti giovani - in delirio.

Crediti fotografici: Ufficio stampa del Teatro Carlo Felice di Genova
Nella miniatura in alto: Annalisa Stroppa (Carmen)
Sotto a destra: il direttore Donato Renzetti
Sotto al centro: Annalisa Stroppa e Francesco Meli (Don José) nella recita del 23 maggio; Amadi Lagha (Don José) e Caterina Piva (Carmen) nella recita del 24 maggio
Al centro in sequenza: Annalisa Stroppa; Giuliana Gianfaldoni (Micaëla) con Francesco Meli; Luca Tittoto (Escamillo); Francesco Meli con Armando Gabba (Le Dancaïre) e Saverio Fiore (
Le Remendado
)
Al centro: i bambini del Coro di voci bianche
Nella miniatura al centro: Caterina Piva (Carmen);
Sotto, in sequenza: Caterina Piva; Abramo Rosalen (Escamillo) con Caterina Piva; Angela Nisi (Micaëla); Amadi Lagha con Angela Nisi






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servizio di Simone Tomei FREE

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ROF bilancio 2025 e programma 2026
redatto da Athos Tromboni FREE

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I numeri che contano
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Manon Lescaut fra le sculture blu
servizio di Simone Tomei FREE

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Classica
SummerFest grande musica da camera
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servizio di Simone Tomei FREE

20250929_Li_00_ GalaVerismo_FestivalMascagni_PietroMascagniLIVORNO - Il Mascagni Festival 2025, nell’anno dell’ottantesimo della scomparsa del compositore, si conferma laboratorio vivo di idee più che semplice contenitore di eventi: una geografia del suono disseminata tra Livorno, la provincia e luoghi simbolici d’Italia e del mondo, capace di intrecciare concerti, opere, letture sceniche e creazioni originali
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Sepe una delicata Butterfly
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La principale differenza rispetto al debutto riguarda il ruolo
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Turandot e le altre
redatto da Athos Tromboni FREE

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Alina Tkachuk la rivelazione
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Rigoletto, Nabucco e Aida
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La bohčme disegnata da Scola
servizio di Simone Tomei FREE

20250808_TorreDelLago_00_LaBoheme_CarloRaffaelli_phGiorgioAndreuccetti.JPGTORRE DEL LAGO (LU) - Tra i capolavori pucciniani La Bohème occupa un posto di privilegio per la sua capacità di fondere realismo e poesia, leggerezza giovanile e dramma struggente. Dal debutto del 1º febbraio 1896 al Teatro Regio di Torino, sotto la bacchetta di un giovane Arturo Toscanini, questo dramma lirico in quattro quadri - tratto dalle
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Jazz Pop Rock Etno
Ferrara Film Orchestra e la bacchetta di Ambra
servizio di Athos Tromboni FREE

20250803_00_GiardinoPerTutti_FerraraFilmOrchestra_CristinaColettiFERRARA - La prima serata della rassegna Giardino per tutti organizzata ai piedi del grattacielo dal Comune di Ferrara con la collaborazione del Teatro Comunale "Claudio Abbado", dentro il Parco Coletta, ha fatto l'en-plein. Era in pedana la Ferrara Film Orchestra capitanata dalla bacchetta di Ambra Bianchi
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Opera dal Centro-Nord
Buratto bel debutto in Tosca
servizio di Simone Tomei FREE

20250802_TorreDelLago_00_Tosca_EleonoraBuratto_phGiorgioAndreuccettiTORRE DEL LAGO PUCCINI (LU) - Nel terzo fine settimana del 71° Festival Puccini di Torre del Lago, la seconda recita di Tosca ha riproposto uno degli allestimenti più attesi di questa edizione. La produzione, firmata da Alfonso Signorini in veste di regista e costumista, si è presentata con una veste visiva marcatamente simbolica, ricca di richiami
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Opera dal Nord-Est
Nabucco Carmen La traviata
servizio di Angela Bosetto FREE

20250731_Vr_00_Nabucco_StefanoPodaVERONA – Anna Netrebko, Anita Rachvelishvili e Rosa Feola, ovvero Abigaille, Carmen e Violetta Valéry. Sono loro le tre grazie musicali che, dal 17 al 19 luglio 2025, hanno acceso l’Arena, rendendo ciascuna rappresentazione meritevole di grande interesse in virtù della propria peculiarità. Per il soprano russo si trattava del debutto italiano come figlia
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Jazz Pop Rock Etno
Verdi e il jazz un dialogo
servizio di Simone Tomei FREE

20250727_Fabbiano_00_ValtidoneFestival_AlessandroBertozziFABBIANO, Borgonovo Val Tidone (PC) - Nella serata di sabato 26 luglio 2025, un angolo a me ancora misconosciuto della Val Tidone, la suggestiva piazzetta di Fabbiano, frazione di Borgonovo Val Tidone, si è trasformato in un crocevia di sublime audacia musicale. Il Valtidone Festival, giunto alla sua 27ª edizione e promosso dalla
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